foto di Dante Leonardi
RIO MARINA : il mio borgo di Luigi Berti
Io amo i monti ferrigni della
mia terra. È una cattiva abitudine di quando fanciullo vi andavo a far le
sassate e, per mulattiere e sentieri, in cerca di nidi e lucertole.
È una debolezza ch'è rimasta
nella mia giovinezza adusta come un'acqua liscia che fa pensare alla dolcezza
di un bagno.
È una leggerezza che mi vi
spinge talvolta ad ascoltare il silenzio e la quiete larga delle cose e
dell'ora.
Ma, caro signore, nulla è più dolce di quei
miei ritorni. Di là passano incessanti i ricordi di tempi lontani
nell'immaginazione e nell'ansia. Ivi le cose esalano adagio la loro anima
antica con la taciturna tristizia dei morenti. Hanno le mani stellate di
piccole ferite, le cose, ma in quell'aria quasi spirituale, tra quelle rocce
iridanti gocce d'umori nascoste a piante disseminate per muriccioli rupestri,
ritrovo la mia adolescenza perduta e mi metto a germinar fragranze in quella
luce purificata e distillata dai successivi trapassi.
L'anima è il corpo ne godono, Signore.
Parto di buon mattino, salgo
alle cime col respiro saltante, venero le scaturigini montanine, le acque fresche
di polla, mi smarrisco per i campi di felci verso il pennacchio di fumo che una
carbonaia eleva nella macchia e salgo e salgo all'ignoto godendo con orgoglio
della stanchezza del corpo, col presentimento di un praterello verde succhiante
la rugiada come una pappa mattutina, così ben curato che fa pena a guastarlo o
qualche gruppo folto di lecci che fanno come un tempio di freschezza odorata di
fogliame e di terra uliginosa e che compaiono in cima ad un colle, divinamente.
Lassù, la sfera del sole è
attenuata dentro finestrelle di rami, soffitti larghi a travature di foglie ed
il cuore ci dorme bene, tanto bene che non ha voglia di destarsi.
Gli occhi riposano sui monti.
( Campane di monti attorno,
per mano,
con ogni giorno
blocchi di
cielo nuovo
ed un diverso rintocco di colori
e d'armonie gioconde.)
I nomi di questi monti li so. Vi serpeggiano valli
che conosco, casolari appuntellati fra scogli, abbarbicati fra il giallame
selvaggio delle erbe e dei rovi; dal cuore sopito, fuori del mondo.
Tutta la vita, caro signore, ha una bellezza, la
quale dona alle cose un significato costante.
E dolce è rimaner li, disteso come in un letto e
non saper da quanto tempo, a guardar il sole, a seguire i
viaggi delle nuvole, i tremiti delle foglie e gli
inchini delle erbe, a sentir sonar campane dalle chiese perdute dei borghi.
Ed il ritorno, a sera, rinnova i prodigi e l'ombre
sul cuore.
Rifare la strada al borgo. Ci si sente raffinato,
signore, agile arioso. Il vostro sguardo alla vita è limpido.
Ed il mio borgo è là, sul mare, come se ne vedono
nelle vecchie oleografie: case stinte, sconquassate, dondolanti in file,
prostrate fino a terra con gemiti di calcinacci.
Oleografie dalle case sempre in lotta col tempo che
le offende, dai lastricati sconnessi e disuguali con nel fondo un poco di carne
umana: un pescatore che dondola agli strappi furiosi dei cavalli del mare la
barca antidiluviana.
Ma quel borgo non è di pescatori chè i suoi uomini
vellosi e sudaticci, corrono i mari o sconquassano il molliccio lubrico delle
miniere di ferro. Quella striscia di terra e di case quella massa informe che
guata di traverso venendoci incontro e stilla per ogni dove tra opacità di
metalli arroncigliati alla confusa il petroso ventre della terra. Osservate
signore, somiglia ai cormorani difformi che gli artisti del Secolo sedici
face-vano sfondo per i loro santi spolpati; paesi di varietà cromatica ma senza
toni intemperanti, pieni di forza nella finezza delle linee gelide, senza
chiaroscuri e così lontani dal reale.
Poi le
miniere; come acroteri adespoti, come rettangoli gemmati di roccie gialle e di
scogli ingommati nel sangue del ferro, bistorti, di sbieco, come minuterie di
incisivi spezzati. Monti tutto colore, imponenti come visi truci, rialzati fra un
odore di sangue ed un tentennio di cristalli: è la campagna senese negli
affreschi di Luca Signorelli e di Antonio Razzi, della leggenda di S.
Benedetto.
Di là, osservi, di là l'atmosfera si acqueta in un'operosità
metodica, qualche voce nuova laggiù, le nacchere dei colori che sbalzano a
sprazzi nello stridore della terra rovistata, tirata, strascicata, che sfogliano
per proprio conto guizzi fuggevoli di verde anemico, smorti di costa in costa,
di filare, in filare, sui muriccioli dinoccolati dalle agavi puntate e chiomate
di giallo; siepi di verde bile che sbisciano via strangolate da mani unghiate
di rosso bucchero, di spinello, di gridellino, indolenzite da alternative di
vigneti esitanti colate di pampini e di grappoli; colate di vino, di ferro, di
sole.
Poi... le scatole stantie di muffa e di muschi del
borgo. La case accatastate per non cadere, alte senza forma, incupite e
sgretolate.
Infine la
torre che serpe la sua ombra sul mare, rabbuffata da un orologio che sbieca le
mura quadrate come un occhio inumidito.
( Tratto da Lo Scoglio, III trimestre - Anno V - autunno 1987, n. 15 pp13-14)
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