Carlo Laurenzi tra l’editore e scrittore Neri
Pozza e lo scrittore Manlio Cancogni nel 1957
LA MIA ISOLA
Elbano, sono consapevole di dovere anche o soprattutto
all'insularità i miei limiti, il mio modo di soffrire la vita, la tendenza
solipsistica a negare il peso oggettivo della realtà, la vocazione a una
contemplativa pigrizia. L'insularità condiziona; o è una forma mentis? Tutte le
isole, specie le piccole, hanno molti aspetti comuni; a ciascun isolano, però,
la propria isola sembra la sola. Ho trascorso all'Elba gli anni brevi che
paiono eterni, l'infanzia e l'adolescenza: da bambino, per me, quell'isola si
identificava col mondo, aboliva il mondo. Poi, ovviamente, mi si vennero
svelando le sue connotazioni frastagliate; ma la toscanità dell'isola - la
connotazione fondamentale - non mi si manifestò né mi persuase per prima. Se
oziavo nel porto, da ragazzo, le sensazioni e gli incontri evocavano Genova e l'Inghilterra. La presenza
degli ultimi brigantini parlava dell'arcipelago. Oltre le acque dei porti c'era
il mare misterioso, gremito di pesci come in Omero: a questa concezione
assoluta di insularità marinaresca è rimasta fedele la poesia del mio amico
Brignetti. E c'era l'entroterra, il massiccio boscoso del versante occidentale,
povero di sentieri. Più tardi lo apparentai alle colline della Maremma; a lungo
era stato Finisterre, luogo di favola, che non ammetteva confronto.
La Corsica - un mito visibile -
era più prossima dell'Italia alla fiducia del cuore. Infine la toscanità
emerse. Una indimenticabile gita scolastica a Firenze, l'anno della prima liceo
costituì la data più importante del tirocinio: intuii molte cose che in seguito
mi adoperai a verificare. In sintesi, questo: proprio per la sua lealtà di
marca di confine, di lembo al di là del mare, l'Elba era una Toscana profonda.
Attento, ascoltai la gente parlare, e constatai che certe locuzioni resistevano
identiche solo nei villaggi dell'isola e nel contado fiorentino. L'architettura
della vecchia Portoferraio era militare e medicea. L'impronta napoleonica,
magnificata dal fascismo, non scalfiva la solidità lorenese. Capii (e mi
intenerì) come nella mia famiglia sussistessero nostalgie granducali; il mio
nonno aveva detto no al Plebiscito. La Toscana mi assorbì, giusta patria. Più tardi l'avrei percorsa
campo per campo, pieve per pieve. Il pittore Beppe Bongi, fiorentino, e io
elbano penetrammo insieme questa patria; lui era il mio Virgilio e io non avevo
nulla di Dante, ma Beppe diceva che un cuneo fiorentino ed elbano, più d'ogni
altro, incideva la terra. Potei sentirmi fiorentino d'elezione. Quando morì
Rosai, ricordo, scrissi senza mentire affatto: "Firenze, mia amara
città". So, nondimeno, che questa affermazione sincera non è sostenibile.
Molto tempo è passato. Io vivo a Roma, in esilio, e posso considerare me
stesso, le mie radici con malinconia e disincanto. L'Elba, certo, è un'isola
tutta toscana e io credo di avere assorbito dalla Toscana tutti i succhi che
sono stato capace di assimilare; ma ora so, sempre meglio, che questa mia
capacità di assimilazione è relativa. Se mi è lecito affermare il mio
patriottismo toscano (fiero come, ad esempio, il patriottismo britannico degli
abitanti non cattolici di Belfast), non mi è consentito sottrarmi alla mia
condizione di insulare, insopprimibile, la natura essendo più forte della
storia. Ci si collega a quanto notavo in principio: un insulare non è mai del
tutto "concreto". Potrei aggiungere che non sono tornato all'Elba: ho
chiuso la mia isola nell'isola di me stesso, e questo, credo, è vera
insularità.
Carlo Laurenzi
Molto bello questo pezzo, che esporto direttamente sulla mia pagina. Grazie, Sandra:-)
RispondiEliminaGisella