Gianfranco
Vanagolli: Le voci del
mare e le visioni del cielo nella poesia di Maria Gisella Catuogno
Quando Gisella mi ha chiesto di presentare
questo suo ultimo lavoro, Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno
di visioni, uscito da poco per i tipi della Onirica Edizioni, ho
recalcitrato, ho tentato di sottrarmi.
Perché il rapporto tra critica e
autore, se serio e non impostato su graziosi
minuetti, è dialettico o non è. E poi obbliga la critica a interrogarsi,
a ripensarsi, perché l’autore produce, costruisce un suo itinerario, sicché le
prove più recenti vanno lette nella ratio di un confronto. E qui,
magari, si può riscontrare che c’è stato un prima in cui si è teso a fare una cosa, ad esempio versi anteriori a
scuole e a poetiche riconoscibili, e che c’è un oggi in cui, invece, è altro a
domandare attenzione. Nel nostro caso, l’esistenza intesa come quotidiano ha
ceduto, almeno in parte, il passo all’esistenziale. Così leggo, con grande
piacere, perché io sono sempre stato uomo di scuole, del “filo d’Arianna
ingarbugliato”, del “gioco dei dadi che non torna”, dell’“aquilone che non
spicca il volo”, di “tempo fermo, sospeso, indifferente”: immagini che, messe
come sono in stretta sequenza, vogliono essere, più che una citazione montaliana,
un piccolo manifesto sotto forma di devota, amorosa decalcomania.
Questo esame, che è sempre complesso
( specie se siamo chiamati a leggere poesia e prosa insieme come ora ci accade
di fare), comporta una duttilità negli strumenti critici che tutti vorremmo
avere, ma che, invece, dobbiamo umilmente ammettere, spesso, di non possedere.
Ecco, io ho temuto e temo l’insufficienza, l’inadeguatezza dei miei strumenti
critici. Mi si perdonerà, pertanto, e mi perdonerà soprattutto Gisella, se
resteranno tra me e le pagine che ho scorso dei momenti di opacità.
Non sarei sincero, tuttavia, se
dicessi che ho tentato di resistere all’invito di Gisella solo a causa di tali
considerazioni.
In realtà, l’ho fatto anche per
paura, una paura speciale, che chiamo paura degli interni, una sorta di
claustrofobia dell’anima .
Sì, perché Gisella mi avrebbe
obbligato a misurarmi con quello con cui
lei sovente si misura, e non a partire da questo libro, che è quello con cui
tutti noi maturi ci misuriamo: la casa, chi la abita e chi l’ha abitata, le
cose che ci sono e che ci sono state: ovvero la casa come scenario di
presenze-apparenze, di affetti nella irrefrenabile rapina del tempo, per cui i
nonni, i genitori ora ci sono e ora non ci sono più e, quando non ci sono più,
si cercano disperatamente. Scrive, Gisella, in Ottobre d’infanzia:
“Ottobre è la vendemmia del nonno,/i grappoli che riempiono i cestini/le vespe
che ronzano…”. E altrove: “Spazzo per te, mamma, le foglie/che l’autunno
riversa sulla piazza/e guardo con i tuoi occhi/la linea d’azzurro
all’orizzonte…”; “Di te, babbo, voglio ricordare …/quel berretto blu di lana/i
lavori pazienti alla ‘guzzetta’/il tuo orto profumato di sale…”; c’erano i
figli piccoli, che ora sono grandi, uomini e donne, e ora, in casa, se ci tornano,
ci stanno in un altro modo. E non parlano più la nostra stessa lingua, anche se
ci si può ancora capire, riconciliare, godendo della dolcezza della
riconciliazione. Scrive Gisella di quel modo che hanno “di chiedere scusa:/un
lungo abbraccio, in silenzio/e tutto è come prima…”
Quanto affetto, quanto amore si
rivanga, quando si entra così in una casa e quanta gioia e quante lacrime,
anche.
Ecco, io temo tutto questo, ne reggo
sempre meno il peso. Probabilmente sono sulla soglia di una fragilità senza
ritorno, che mi ferisce, se qualcuno o qualcosa me la ricorda.
Tanto più che questi versi, parlo di
queste minime epistolae familiares, senza escludere gli altri, non mi
sembra siano un fritto misto di naiveté e di malizia, come di continuo
se ne incontra.
Quante volte ci è capitato di vedere
un quadro naif. Il più delle volte è artificio: nel migliore dei casi,
mestiere, maniera; nel peggiore, pretesto, ruffianeria, presa in giro.
Ma capisco che, parlando di naiveté,
posso portare fuori strada. Parliamo, allora, piuttosto, di sincerità.
Io voglio credere alla sincerità di
questi versi, nei quali Sergio Gabriele, che vi spende una succosa prefazione,
vede, tra l’altro, un discorso compiuto, una narrazione, che parte da una
dolorosa presa d’atto del distacco dell’uomo dalla Natura, causa prima di una
triste serie di offese all’umanità, guerra, intolleranza, sterminio, dignità
negate. Un discorso alto, insomma, per il quale mi affido ai suoi strumenti
critici, certo più affilati dei miei. Salvo, però, cessare di seguirlo quando
parla di Natura ritratta in sequenze di polaroid, sebbene “esaltanti”. Questo
proprio no. Anche se devo riconoscere che la si controbilancia, l’immagine del
più estemporaneo tra gli scatti, con altre più persuasive, che mi sento di
condividere, specie se discendono dal più nobile riferimento a tensioni
impressionistiche. Che, voglio precisare, sono, per me, più attinenti a quella
particolare forma di impressionismo che fu la macchia italiana che non ai
parametri dei grandi francesi.
Ma, parlando di sincerità, avevo in
mente una riflessione di Umberto Saba concepita intorno al 1912 e pubblicata
nel 1959 con questo titolo: Quello che resta da fare ai poeti.
Il poeta, scrive Saba, deve proporsi
una poetica sincera, appunto, semplice, senza fronzoli e orpelli, andando nel
senso in cui andò Manzoni con gli Inni sacri contro le eleganze dei
classicisti.
Chiamo in causa il Saba dei primi
del secolo non a caso. In quel momento,
infatti, si affermava la poetica del frammento. Parlo della “Voce” di De
Robertis e di autori come Scipio Slataper, Giovanni Boine e soprattutto Camillo
Sbarbaro di Pianissimo.
Ora, secondo me, Gisella frequenta
la poetica del frammento, che, si badi bene, è eterna, non appartiene solo a un
determinato momento, è sempre attuale, come lo è il romanticismo: lo si colloca
in un periodo, ma c’è un romanticismo che attraversa i secoli.
Così, se dico questo, non riporto
Gisella all’inizio del gioco dell’oca, ma la metto bene tra noi. Qui e ora.
Nel frammento Gisella entra. E ne
esce.
C’entra perché talora tende a
sfumare la poesia in prosa (un carattere, questo, più marcato in passato),
esprime una visione soggettiva della vita, inclina qua e là a un certo
crepuscolarismo, fa costantemente dell’autobiografismo, analizza con un sonar molto
sensibile i propri sentimenti.
Ne esce perché non ha risvolti
espressionistici. E quando ne ha divorzia dalla poesia morale. Che, peraltro,
non produce, quando c’è, ironia o satira.
Come Saba, Gisella nutre un amore
insopprimibile per la propria piccola patria, con la differenza che quello del
poeta è un amore conflittuale, mentre il suo è incondizionato. E’ un amore che
capisco, perché precede la ragione, come tutti quelli nati nella prima
infanzia, per cui le cose che ci circondano sono favoleggiate e se poi
diventano inevitabilmente altre, conservano sempre, però, quel che di favola e
quasi di indefinito leopardiano, che è, insieme, croce e delizia.
E qui mi sia consentito gettare uno
sguardo al di là di questo libro, sul quale tornerò, e di posarlo più
puntualmente di quanto non abbia fatto finora sulla produzione pregressa di
Gisella.
La piccola patria di Gisella è il
Cavo, dove possiede una casa tra la spiaggia dei Tramariggini e Capo Castello.
E’ una casa che assomiglia alla mia che, sempre al Cavo, si trova più a
ponente, nel vicinato dell’Ombrìa, manco a dirlo, opposto a quello di Solana.
Sono due case vecchiotte – la mia è del 1911; la sua, del 1930 o giù di lì –
circondate da un giardinetto, con la loro brava pergola, i fiori ecc. Quando furono
costruite erano ancora vive e relativamente giovani Italia e Teresa, le nostre
bisnonne, che erano sorelle.
Ricordo tutto questo per rendervi
avvertiti che quando dico “un amore che capisco” , non vado sull’astratto. Il
favoleggiato di Gisella è il mio. Di più: dividiamo anche il fatto di essere
vissuti in continente, dall’età dell’adolescenza, e di aver fatto ritorno al
Cavo ogni anno, d’estate, e dunque di aver associato, da allora, il luogo alla
vacanza, allo svago, al mare, a una dimensione per molti versi solare e felice.
Del Cavo Gisella ha cominciato a
scrivere nel 2004 con un libro, Il mio Cavo tra immagini e memoria, nel
quale il paese viene definito “luogo dell’anima”, il posto che più di ogni
altro ha su di lei potere d’attrazione e fascino.
La prima “sollecitazione” al lavoro
è venuta da una collezione di cartoline d’epoca. E siamo alle immagini. Ma poi
è venuta la necessità di andare più indietro. E siamo alla memoria (e alla
storia, aggiungo).
Immagini e memoria (e storia), però,
non esauriscono l’insieme: ci sono dei quadretti, degli idilli – La scuola,
I giochi, La scuola di ricamo…I fantasmi…la magia, Gli spazi
intorno casa, La casa, La vendemmia ecc. – che, raccolti
sotto il titolo di Ricordi, chiudono il libro e, a mio modo di vedere,
ne costituiscono la parte migliore. Scrive in Scuola:
Ricordo la lunga
strada (almeno per me bambina) che da Capocastello portava in paese: la
percorrevo la mattina per andare a scuola e il batticuore mi veniva quando il
vento era forte e il mare non si accontentava dei suoi confini; allora inondava
la strada, specie nel punto che noi chiamiamo alle pitte, cioè tra l’odierno Paradiso
e l’ingresso del Castello, dove prosperavano bellissime agavi. Lì le
onde si frangevano con particolare violenza polverizzandosi in bianchissima
schiuma: io ne avevo paura e prendevo un sentiero più a monte, tra lecci e
lentischi, per evitarle.
La scuola era in un
edificio in Piazza Matteotti, al primo piano. Anche lì si abbatteva il mare,
quando il vento soffiava: la piazzetta vi era stata costruita quasi a prendere
le distanze da quell’acqua così onnipresente e minacciosa, ma la resistenza che
offriva era scarsa.
Uno schizzo di infanzia marina, che
mi rammenta il Brignetti scolaro della Spiaggia d’oro e la sua
traversata quotidiana in barca del golfo di Longone, dal Focardo a Porto
Azzurro. Confesso che l’immagine di quella scuola sul mare mi coinvolge, perché
in quelle aule insegnò, giovanissima, mia mamma, tra il 1940 e il 1941.
Non mi soffermo di più su questo
lavoro, se non per dire che da qui parte un discorso e non solo sul piano
cronologico. E’ da queste pagine che Gisella scopre il gusto di raccontare. Ed
è da queste pagine che i personaggi e le circostanze che le popolano,
ritorneranno, poi, in un cammino di integrazione e di arricchimento: cammino
nel quale si corre anche il rischio della ripetizione, del ricalco: un rischio,
del resto, inevitabile per chi traduce in narrativa i propri giorni. Pensiamo a
Del Buono, che ha realizzato una decina di romanzi pensandone uno solo. Ma -
non c’è bisogno che lo ricordi io - con risultati eccellenti.
Poi il Cavo ritorna in Riviere,
un libro di racconti, edito nel 2009. Vi si leggono Infanzia di mare, Primo
amore, Ospiti illustri, dove convivono, appunto, il recupero o dirò
meglio la rivisitazione di temi già trattati e nuovi apporti, quali l’amore che
per definizione “non si scorda mai”, raccontato senza l’enfasi e la
trepidazione spesso falsa che
accompagnano le rievocazioni di questa natura o la carriera del marinaio di
lungo corso che fu il babbo di Gisella.
Non renderei, però, giustizia a
Gisella, se insistessi sul Cavo, parlando di Riviere, perché da qui le
sue pagine si allargano, tentano un altro respiro.
E diventano oggettivamente più
importanti.
Mi riferisco a Lo specchio di
Virginia e a Io, Eleonora, la più bella del reame, due prove brevi
che costituiscono la sezione denominata I Narcisi. Il tempo tiranno mi
impedisce di parlarne come vorrei, ma mi si lasci almeno dire che se cerchiamo
una raffigurazione della donna-corpo, tanto amica della propria bellezza e
della propria capacità di seduzione quanto nemica della propria crescita e della
propria realizzazione umana, difficilmente ne troveremo un’altra più
persuasiva.
Con il respiro, cresce anche la
scrittura, diventando più intrigante, più convincente: segno che Gisella ha
acquistato fiducia in se stessa e nelle proprie capacità, anche di dominare
situazioni scabrose, se ha senso parlare di situazioni scabrose nell’ambito
della produzione artistica.
Il gioco, insomma, sta diventando
una cosa seria.
Giudico veramente ammirevoli
l’equilibrio compositivo e la puntualità linguistica de Io, Eleonora,
la più bella del reame, che ha
questa chiusa: A casa, la sera, una cena frugale, poca televisione…e poi
bagno rilassante, prima dello spettacolo più bello: piazzarmi davanti allo
specchio, in tanga e calze di pizzo autoreggenti, reggiseno a balconcino e
guardarmi, come una bella statua, come l’essenza dell’armonia, della
proporzione! E poi, se qualche blanda eccitazione arrivava, bastavo a me
stessa, al mio tocco leggero: un attimo e tutto era finito…senza un altro corpo
ad ansimare sul mio, a schiacciarmi, a sciupare la mia bellezza da dea greca.
Contemporaneo di Riviere è Vento
nelle vele, racconto lungo o romanzo breve, che segna un ulteriore e deciso
passo in avanti.
Di questo lavoro mi occupai anni fa,
presentandolo nell’aula magna di una delle nostre scuole e da allora non mi
stanco di raccomandarne la lettura.
Si tratta di un testo che “si ispira
molto liberamente a un diario di bordo di Georges Simenon, La
Mèditerranée en goélette”, uscito per Le Castor Astral nel 1999.
Sostanzialmente su una traduzione si
è innestato un processo immaginativo attraverso il quale Gisella ha viaggiato
in lungo e in largo per il Mediterraneo con Simenon e la moglie, reinventando
le loro giornate e le loro relazioni, private e con il mondo circostante.
Ora si deve sapere che il grande
scrittore francese, l’ultimo erede dei Flaubert e dei Goncourt, noleggiò, nel
1936, la goletta Araldo dell’elbano Giacomo Canovaro e con essa toccò
anche la nostra isola, particolarmente Portoferraio e Cavo. Qui scoprì un mondo
arcaico e affascinante, povero e dignitoso, fondato sulla solidarietà del clan,
che descrisse sinteticamente, ma acutamente, lasciandocene una testimonianza
preziosa sul piano antropologico-culturale. Gisella
si muove in questo quadro da padrona, né ci aspetteremmo qualcosa di diverso. Non è altrettanto scontato, invece,
vederla disinvolta e sicura tra la Costa Azzurra, la Sicilia, Malta, Atene,
Tunisi, di cui descrive atmosfere, colori, uomini e donne, profumi e odori: un
mix godibilissimo di motivi mediterranei, di solarità, di mare e di cielo, di
spazi aperti, di sottili venature sensuali, propiziate dagli insaziabili
appetiti dello scrittore, soddisfatti dentro e fuori il matrimonio, con la
paziente rassegnazione, ma anche complicità, della moglie (una cosa tutta
francese, per l’epoca). La crociera, così riletta, si scorre d’un fiato, sul
filo di pagine ordinate su una grammatica sorvegliata e autorevole, che rende
accettabili anche quelle che talora potrebbero essere delle oleografie.
Di questo processo di maturazione,
che, ripeto, riguarda forme e sostanza, fa parte anche la scoperta della
questione femminile, proposta in una produzione poetica di cui è un esempio Il
tuo corpo di miele e di dolore, un’apprezzata e premiata lirica composta
nel 2008, e che in Riviere torna con Olga e, nel 2011, con Dora
Pistillo, un racconto, scritto sulla falsariga di una biografia reale,
apparso sul numero uno della rivista “Dedalus”.
Sul piano dell’approccio al tema, si
avverte il peso, o l’ala, a seconda dei punti di vista, dell’ideologia, ma
inutilmente vi si cercherebbero esasperazioni femministe. Gisella sembra dire,
molto semplicemente: le donne hanno bisogno degli uomini, ma li vogliono
migliori. Per un mondo migliore. E certo non ha torto, perché spesso noi uomini
non capiamo, né ci sforziamo di capire, l’amore al femminile, la guerra al
femminile, la fatica al femminile. Gisella parla di Olga. Io potrei parlare di
un’altra donna, un’albanese che conosco, reduce anche lei da uno dei molti
paradisi comunisti, probabilmente il peggiore, anche lei con un’odissea alle
spalle, vissuta coraggiosamente e con grande dignità.
Sotto il profilo più strettamente
letterario, il prodotto più convincente, a mio modo di vedere, è Dora
Pistillo: bambina, sposa, madre, emigrante, fortunata imprenditrice, donna
di cultura e donna di cuori, anche, la
cui vicenda si sviluppò tra il Piemonte e il Venezuela tra la fine
dell’Ottocento e la metà del secolo successivo.
Qui la prosa diverge da quella di Vento
delle vele, assumendo cadenze più frastagliate e più complesse, più da
narrativa contemporanea, direi: vi si avvertono i sommovimenti di una ricerca
che, evidentemente, prosegue e tende a nuovi traguardi, non importa se
lasciando un posto ad una tavolozza che, ai colori crudi associa quelli
attinenti al favoleggiato castello di Malgrà.
Ma è ora di tornare al punto da cui
siamo partiti, avviandoci a concludere, perché abbiamo tutte le coordinate
necessarie per orientarci al suo interno: le struggenti regressioni temporali
verso l’infanzia, il mondo degli affetti, la memoria, i luoghi cari, la Natura,
l’amore, l’attenzione alle ferite delle donne.
E per tentare di raccordarle, con
minori o maggiori possibilità di riuscita, con quelle che emergono, se non ex
novo, almeno con maggiore incisività rispetto al passato: ad esempio con la
poetica del simbolo, che trionfa nel titolo: Questo mare è pieno di voci e
questo cielo è pieno di visioni, nel quale rivive il brano di un discorso
di Giovanni Pascoli, il poeta che qui e altrove emerge anche come il poeta
delle Myricae.
Siamo alle origini della sensibilità
contemporanea, da cui parte un viaggio che vale un’infinità di nomi dei nostri
giorni, tra i quali mi sembra di poter scegliere, pensando a Gisella, Giorgio
Caproni, per la sua malinconia, e soprattutto Maria Luisa Spaziani, una delle
muse ispiratrici di Montale, la cui poetica comprende, oltre a una forte
dimensione sentimentale, alla folgorazione di incontri (che in Gisella sono
anche con le cose: ad esempio le piante, gli alberi) e alla riappropriazione
orgogliosa del privato, la tensione religiosa, la continua esplorazione di
linee ispiratrici e l’offerta incontenibile di sé.
Sì tutto questo io trovo in Questo
mare, in un nodo forte con l’impegno
civile e la riflessione politica, mentre mi accompagna, alta, ma non
prevaricante, forte, ma dolce, e comunque inestinguibile, una voce di mamma:
“Figli, se anche non foste miei figli,/io vi amerei per la vostra
giovinezza/ardente e inquieta/e per quella voglia di sfidare il mondo/ che
v’accende lo sguardo e le emozioni”.
Gianfranco Vanagolli
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