IL FARMACISTA POETA.
Bartolommeo Sestini (Fauglia, 08 agosto 1889 – Capoliveri 1
ottobre 1963)
Credo che i vecchi Capoliveresi si ricordino di Sestini più
come Farmacista che non come poeta. Come tale e come scrittore è stato
presentato alle generazioni più giovani con due opere, uscite l'una, in
occasione del centenario della nascita
del poeta, curata dal Prof. Alfonso Preziosi, dal titolo “Omaggio all'Elba” e
l'altra dall' Avv. Romano Figaia, che di Sestini fu, prima amico, ed ora estimatore, che ha curato e
commentato un manoscritto avuto da Leonida Foresi, grande amico e confidente
del Sestini, dal titolo “Perdio,o 'Elba?...'”, in occasione delle celebrazioni
per il centenario della nascita del comune di Capoliveri.
Sestini arrivò a Capoliveri fresco di laurea, nell'ottobre
del 1914, per dirigere la locale farmacia, allora situata al piano terra
dell'edificio ove è collocata la lapide di un'altra “gloria” nostrana,
l'anarchico Pietro Gori. [attuale Piazza Matteotti]. Andò via da Capoliveri nel
1920, dopo aver contratto matrimonio con la capoliverese Giuseppina Fava , per
trasferirsi prima a Milano, poi a Firenze. Nel 1947 Sestini ritornò a
Capoliveri, dove rimase fino alla morte, nel 1963.
Quello che traspare dalle sue opere, sia in prosa che in
poesia, è il grande amore per Capoliveri e la sua gente, che egli sente tanto simile a sé, chiusa,
poco incline a nuove amicizie, fiera, pur nella
miseria, i volti duri, quasi
scolpiti nel ferro del Monte Calamita. Egli ama il piccolo villaggio d'altura,
i suoi panorami stupendi, ora descritti con versi sereni “ “E'
il piccolo oscuro villaggio/che appare vestito d'azzurro/ come le antiche
immagini/ nei freschi bizantini/ Vengono spesso le nuvole/al modo di branchi
d'uccelli/migratori: giuocano in alto,/ poi si fondono lontano/ di Colori di
Madreperla. [Omaggio all'Elba -Capoliveri], o con visioni
claustrofobiche, “Parole al sole – “Meriggio Estivo “ L’afa ha fatto del cielo una prigione./ Scoppian quasi dal canto le
cicale./ Grava su tutto un incubo di male/ un senso muto di disperazione./ il motivo dell'aridità, dell'isolamento, della solitudine, simboli del limite
invalicabile che impedisce all'uomo di mettersi in contatto con gli altri e lo
condanna all'isolamento; l'orto, luogo chiuso, immagine concreta di una
prigione da cui non si può evadere, ci ricordano un altro Meriggiare, di
un poeta, Eugenio Montale, ben più famoso di Sestini, che in un altro
pomeriggio estivo, prova lo stesso senso di solitudine e claustrofobia provate
dal Sestini, oppure con immagini più aspre:
“Or sull'alto selvaggio Calamita/ tace lontano la tua
gente, in seno/ alla tua solitudine, Tirreno/ vivendo ancora la selvaggia vita
/ [Perdio, o l'Elba?... –Capoliveri]
E, alla “selvaggia via” Sestini fa riferimento anche ne “La
preghiera del minatore”, non come rivendicazione delle dure e difficili
condizioni di vita di coloro che lavoravano nelle miniere, in appoggio alle
lotte socialiste o sindacaliste. La sua indole solitaria gli impedì di aderire
ad un qualsiasi movimento o partito. La poesia fu dettata dalla sua pietà ed
umana solidarietà verso questa gente costretta non a vivere, ma a sopravvivere,
ed affrontare spesso una morte tragica ed impietosa, nelle viscere di quella
terra che li ha sepolti sin dall’età giovanile, sentimenti quindi profondamente
umani, senza assumere peraltro il tono di una denuncia sociale.
La
preghiera del minatore
Mazza e
piccone, o Malo Dio, ci desti,
contro
la terra a sfrenar l’ira nostra:
ci
condannasti in un’oscura chiostra
dove
alla Morte schiavi ci rendesti.
Figli
del sole, all’ombra incatenati
portiam
nell’ombra il marchio del dolore
e
l’odio contro te chiuso nel cuore,
contro
le gioie cui non siamo nati.
Stravolti
gli occhi e accesi di fatica
scavian
cantando intra la terra rossa,
per noi
scaviamo quella stessa fossa
onde
vien fuora il pan che ci nutrìca.
E a te,
che delle madri le preghiere
guardi,
chiedenti per i figli il Bene,
già
pronti a trascinar nostre catene,
a te,
dei ricchi umano giustiziere
Dio
della Gloria, Dio della Beltà,
l’odio
scagliam dei nostri cuori affranti,
che da
quest’ombra a te salga tra i canti
della
Giustizia e della Libertà.
Ilva
1913, n°479
Sono parole uscite dalla penna di chi quotidianamente vedeva
e viveva, anche se di riflesso, la dura condizione del minatore capoliverese.
Parole uscite dalla stessa penna dell'uomo che, 50 anni dopo, volle scritto
sulla sua lapide : E come ho io perso,/ tanto tempo Signore,/ per vivere?
Ornella
Vai
Dunque capoliverese d'adozione che dalla nuova patria prendeva la fierezza e il temperamento "sanguigno". I versi, pieni di passione e risentimento, sembrano davvero colpi di piccone, anche se lui era solo spettatore delle altrui fatiche, dimostrando sensibilità verso gli oppressi e capacità d'immedesimazione. Greazie a Ornella e grazie a Sandra per queste chicche
RispondiEliminaM.Gisella Catuogno
per puro caso ho conosciuto questo poeta che,come me,non esita a colpire il dio malvagio responsabile di tante ingiustizia sulla Terra; così questo giorno non è stato inutile
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