Elba isola di poeti e narratori

Elba isola di poeti e narratori è un'antologia, ma non un' antologia critica perché non sono una critica, né desidero esserlo. E' il percorso di una lettrice che ha con la parola scritta un rapporto emotivo, empatico, emozionale e non intellettuale, che tenterà di dare uno sguardo sugli scrittori elbani e sull’Elba nella letteratura.

sabato 16 febbraio 2013

Oreste Del Buono Genio e carattere di Oreste Pivetta

Non ho mai conosciuto Oreste Del Buono ( 1923-2003), uno dei più fini ed irregolari intellettuali dell'Italia del dopoguerra, anche se mi è capitato di incontrarlo più volte all’isola. Solo una volta nel parcheggio dell’Hotel Airone ebbi il coraggio di salutarlo con un timido : Buongiorno O.D.B.
Per ricordarlo e per presentarlo in una prima scheda riporto un articolo di Oreste Pivetta  pubblicato sul giornale "l'Unità", uno dei tanti apparsi sulla stampa nazionale, in occasione della scomparsa del giornalista e autore elbano.



Piccolo così, capelli di quel genere fino e biondiccio che si confondono con la pelata, gli occhi cerulei: metteva paura ed era famoso per il “caratteraccio”, bizzoso, furente. Però una infinità di noi...scrittori, cineasti, disegnatori di fumetti, redattori editoriali, comici, umoristi, attori, fotografi, storici, giornalisti, calciatori, specialmente lettori (di tutto e cioè di libri, riviste, quotidiani, cataloghi, album, eccetera eccetera) gli deve almeno un grazie, un grazie grande come una casa, condito dal massimo della riconoscenza e dell'affetto. Personaggio, per quanto antipersonaggio, uomo qualunque per gusto della misura e uomo specialissimo per cultura, intelligenza, vivacità, curiosità, Oreste del Buono è morto a Roma. In fondo ci sembra una cosa strana per lui, toscano dell'isola d'Elba, milanese di una Milano d'altri tempi (quando si
respirava ancora le nebbia e lui s'aggirava con il suo soprabito beige, non con il collo rialzato alla Umphrey Bogart, ma giù piatto e largo con la sua stazza medioforte  da professore liceale), milanista e calciofilo di grande passione e autentico stile rossonero (un po' come uno dei suoi preferiti, Gianni Rivera, come sicuramente non s'usa più dalle parti di Berlusconi). Era un genio e nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirglielo in faccia, genio (buono o cattivo) nel senso antico di spiritello che s'aggira tra gli uomini, vede e annota, deduce e scrive, di frontiera, come si dice e come s'addice a uno spirito che supera i muri: quello ad esempio tra generi (romanzo) e sottogeneri (gialli o fumetti) alzato dall'accademia. Per questo era un genio delle scoperte, delle intuizioni, delle ricerche e delle trasgressioni. Ne sanno qualcosa alla  Einaudi e ne sanno qualcosa Gino e Michele quando (se pure nella collana azzurrina, più succinta scheda critica, guida bibliografica, corrispondenze) accanto allo Struzzo comparvero le Formiche, quelle che nel loro piccolo s'incazzano come per delitto di lesa gravità. Le Formiche alla fine migrarono altrove. Del Buono se ne andò insieme con Alessandro Dalai. Ma il colpo fu davvero rilevante e dava una lezione. Seguirono le imitazioni.
La biografia sarebbe lunghissima, come conviene a un uomo di tanta vitalità, che aveva superato lo scorso otto marzo gli ottanta anni. Cominciamo dagli ottant'anni.  Pubblicamente non festeggiò. Al proposito affidò alla Stampa, nella sua rubrica, il seguente beffardo pensiero: “In questa odiosa circostanza ho cominciato a ricevere richieste di interviste, annunci di cerimonie, felicitazioni, avvisi di festeggiamenti. Grazie a tutti. Ma perché? Che cosa si vuole festeggiare? La resistenza? Di che cosa ci  si congratula? Del fatto che io sia ancora vivo? Anche questo è da vedere”. Sembrerebbe cinismo, ma quando gli annunciarono la morte di un coetaneo, editore, si mise a piangere e sospirò: “Poco alla vota, ce ne andiamo tutti...”.
Appena prima dei suoi ottantanni, un editore milanese, Scheiwiller ripubblicò alcuni testi narrativi di Oreste del Buono, due degli esordi, La parte difficile (che dà il titolo al volume) e Racconto d'inverno, altri da La terza persona del 1965 e infine sedici microstorie da La vita sola del 1989. Scheiwiller presenterà altre opere di Oreste del  Buono, ma le prime sono importanti per rivedere un tratto della sua vita molto particolare e tutto sommato ignorato. Quello di un marinaio ventenne che s'era arruolato poco prima della caduta di Mussolini, era caduto prigioniero dei tedeschi ed ora finito in un campo di concentramento, sotto la sigla Imi: Internati militari italiani. Oreste del Buono ricorse alla letteratura per valicare quell'esperienza e per riflettere sull'altra del reduce che torna alla vita civile, come s'è letto e visto tante volte, nei libri e nei  film. “Ma qui – e ci affidiamo a Piero Gelli, che fu con lui alla Einaudi ed è uno dei nostri critici più colti e intelligenti – del Buono in pieno di neorealismo, in piena  adesione testimoniata...percorrre subito un'altra strada. Il disagio non è nel reinserimento in una società civile, ma i qualcosa di più profondo, il protagonista è uno straniero, come il Mersault di Camus e uno straniato quasi pirandelliano: “Ma c'era un altro personaggio ormai nella stanza, un personaggio con il mio nome, con il mio corpo”. Questo illustra già la profonda qualità letteraria di Oreste del Buono, poco riconosciuta e poco reclamizzata e una scrittura tutt'altro che cronista (e non sarebbe un male), bensì assiduamente e dolorosamente elaborata (del Buono scriveva e riscriveva e già nel '47, anno della prima edizione, s'era messo a scrivere proprio La parte difficile).
Oreste del Buono era nato all'isola d'Elba, in località Poggio, l'otto marzo 1923. Aveva un nonno, con lo stesso nome, che era stato sindaco, e uno zio materno, Teseo Tesei, eroe di guerra disperso nel mare di Malta. Per quella memoria probabilmente s'arruolò marinaio. Della prigionia e dei primi libri s'è detto: andrebbe aggiunto, sulla  stessa china, Acqua alla gola del 1953.
Quello era l'inizio. Pare che del Buono dormisse pochissimo. Pare che andasse a letto alle otto di sera e s'alzasse alle due di notte, si mettesse al tavolo e lavorasse sino all'alba, per concedersi un breve pisolo prima di ricominciare. Accanto all'intelligenza (ma anche come lui scrisse alla “diffidenza e alla curiosità) gli doveva servire per  forza molto tempo per percorrere tante strade differenti: ancora i suoi testi letterari; le traduzioni (duecento opere di autori come Proust, Flaubert, Stevenson, Gide,  Wilde, Bataille, Walpole, Maupassant), i fumetti, la rivista Linus (era stato tra i fondatori e la diresse la prima volta dal 1972 al 1982, per riprendersela negli ultimi anni, in  epoca di pesante crisi), la critica cinematografica (per dieci anni sull'Europeo), la direzione della collana dei “Gialli Mondadori” creata da Alberto Tedeschi, il lavoro editoriale tra Rizzoli, Rusconi, Sonzogno, Bompiani, Feltrinelli, Einaudi e rumorose dimissioni, fino alla collaborazione nel rilancio della Baldini e Castoldi. Intanto  scriveva: Facile da usare (1959), Né vivere né morire (1963), I peggiori anni della nostra vita (1971), La nostra età (1974), Tornerai (1976), Se mi innamorassi di te  (1980), Talpa di città (1984), Amori neri (1985), La nostra classe dirigente (1986), La debolezza di scrivere (1988), La vita sola (1989), I grandi ladri (1992), Amici, amici degli amici, maestri (1994), L'enciclopedia del fumetto (1969), persino una commedia, Niente per amore (fu data a Milano nel 1962) e tanti articoli di giornale, da ultimo proprio sulla Stampa, sulle pagine dei libri di Nico Orengo (e quasi per ultimo, in un certo senso a riprendere quella sua prova nel lager nazista, sul saggio recente che ripercorreva la vicenda di Calogero Marrone, capo dell'anagrafe del comune di Varese, che salvava gli ebrei con i suoi timbri e i suoi documenti falsi). Gianni Rivera, il golden boy, gli deve due libri, Un tocco in più e Dalla Corea al Quirinale. Chiappori, Altan, Pericoli, Pirella, Staino e tanti eroi come Jeff Hawke, Dick Tracy, Corto Maltese e Valentina incontrarono la sua attenzione e le sue pagine. Tutto sembra documentare quella sua genialità che rompeva gli schemi e i giocattoli della tradizione: avventurandosi tra tanti generi, faceva qualcosa d'originale e di serio per la cultura italiana, la liberava di qualche gesso e di qualche colletto inamidato. Soprattutto rendeva un servizio meraviglioso al cosiddetto consumatore culturale: spalancava le finestre. Credo che a spiegare questa sua disposizione sia il suo genio, certo, ma anche l'atteggiamento. Scrisse una volta introducendo una sua raccolta di  scritti cinematografici per Garzanti (Il comune spettatore): “Io non sono un critico, sono appena uno spettatore, un comune spettatore, uno spettatore che si paga il biglietto...”. Non era vero, ma la provocazione conteneva un'idea di rispetto, l'idea che in quella nobile confusione che si chiama critica contasse anche il punto di vista di che sta al cinema o in tram a guardare o a leggere.
Siccome nessuno ne scriverà, dovrò ricordare che Oreste del Buono collaborò anche all'Unità. Fu in occasione dei mondiali calcio in Germania, 1974. Teneva una sua rubrica, spesso lasciava la prosa per una filastrocca in rima e quando la rima non veniva si faceva gara tra i redattori a trovarla. Un giorno ne uscì una così: “Stella  stellina s'avvicina l'Argentina. Stella stellonia oggi tocca alla Polonia...” Questo per dire quanto OdB era simpatico.

Oreste Pivetta- L'UNITA' – 01/10/2003


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