Nel numero 45 della Rivista Lo
Scoglio, dalla quale provengono molti degli articoli che riporto nel blog, ho
trovato quest’interessante intervista di Enzo Magri a Oreste Del Buono. Pubblicata su Lo Scoglio nel 1995 offre non
solo un ritratto dell’uomo Del Buono, ritratto che emerge dal taglio e dal
contenuto delle sue risposte, ma anche
un quadro dell’ambiente culturale, giornalistico ed editoriale dal
fascismo agli anni 90 e dell’evoluzione culturale e editoriale nel ‘900.
Oreste, il
«guastafeste»
Del Buono, l'enfant terrible che ha distrutto i luoghi comuni della carta stampata
di Enzo Magri
Del Buono, l'enfant terrible che ha distrutto i luoghi comuni della carta stampata
di Enzo Magri
Pubblicata su Lo Scoglio III Quadrimestre 1995 - Anno XIII pp. 7-12
-Del Buono lei è stato fascista?
«Sono stato balilla e
avanguardista».
-E' stato anche comunista?
«Comunista e responsabile di
cellula».
- E adesso che cos'è?
«Fasciocomunista apostolico romano».
Oreste del Buono (OdB), 73 anni, da quasi sessanta sulla piazza
editoriale italiana come giornalista, scrittore ed editore, ama sorprendere il
suo interlocutore. Chiunque esso sia. Oltre alle facezie che ti spara quando
meno te le aspetti, il recente miglior numero del suo repertorio (e ne ha
tanti) consiste nell'accomiatarsi dal suo ospite regalandogli un libriccino
delle dimensioni di sette centimetri per cinque, stampato dall'editore Vanni
Scheiwiller. In copertina sotto il nome e il cognome dell'autore, Oreste del
Buono, campeggia un titolo piuttosto presuntuoso: Il meglio dei miei pensieri. Tu lo sfogli per usare una cortesia al
suo creatore che ti scruta in attesa della tua reazione e scopri che tutte le
pagine sono bianche. Questo non vuol dire che OdB non abbia pensieri
eccellenti. E' soltanto uno che non ama prendersi sul serio. Ma ciò non
significa che non valga la pena di ascoltarlo. Tutt' altro.
- Lei è toscano dell'Elba. Come
sono gli elbani?
«Sì, sono elbano. Dunque sono
mezzo toscano. Anche per via della statura».
- Lei ha un fratello che si chiama Pilade.
Oreste e Pilade: suo padre amava la classicità?
«No, mio padre non c'entra.
All'Elba, qualche secolo addietro, c'era un parroco umanista al quale piacevano
i nomi classici e li imponeva. Quando a scuola scoprivano che avevo un fratello
di nome Pilade mi domandavano? Hai anche una sorella che si chiama Ifigenia?».
- Suo nonno, Pilade del Buono,
era un deputato dell'estrema sinistra. Ve ne vantavate durante il fascismo?
«Mio nonno era stato radicale e massone. Evidentemente tacevamo».
- Lei ha partecipato alla guerra
perché sentiva di dovere andare al fronte? Perché era nipote dell'eroe Teseo
Tesei? Perché è stato richiamato?
«Pur avendo molti militari in famiglia, il mio atteggiamento non è mai
stato militaresco. In vita mia ho sparato solo una volta con un fucile ad aria
compressa per colpire un compagno di scuola il cui padre mi sfotteva chiedendomi:
Orestino ma quando cresci?».
- E in guerra?
«Sono stato richiamato nella
leva di mare. Potevo imboscarmi utilizzando mio padre. Ho ceduto alle pressioni
di mia madre, sorella di Tesei, che, fascista, mi spronava ad andare in guerra.
Sono partito il 23 luglio del '43. Due mesi più tardi sono stato fatto
prigioniero dai tedeschi».
- E' scappato dal campo come Steve Mc Queen ne
La grande fuga?
«Meglio. Sono fuggito due volte. La prima sono ritornato perché non
sapevo dove andare. La seconda è stata attorno al 16 aprile 1945. Sono arrivato
a Milano in tempo per il giorno 25».
- E' vero che è stato il fumetto
Topolino giornalista a ispirarle il
desiderio di fare il mestiere di scrivere? «E' stata la disavventura di mio
nonno, Pilade, a ispirarmi l' amore per il giornalismo. Denunciate una serie di
illegalità commesse da Giolitti, il mio avo, che era giornalista, venne
querelato dall'uomo di Dronero senza facoltà di prova. Per sfuggire a una
condanna sicura, egli scappò dall'Elba. Quell'impegno che poi, attraverso il
mio amore per il futile, ho ritrovato in un fumetto in cui Topolino si batte
contro una banda di corrotti, mi indirizzò verso questa professione».
- Quali erano i modelli del giornalismo sotto
il regime?
«La mia esperienza nella professione sotto il fascismo è stata
marginale. Ho conosciuto il Guf (gruppo universitario fascista) dove, attraverso
i giornali di scuola, i giovani avevano molte più possibilità di scrivere
rispetto a oggi».
- Ma c'era veramente una fronda
antifascista nel giornalismo oppure venne inventata dopo? Insomma si capiva che
quel tizio scriveva in un modo e la pensava in un altro?
«Alcune cose mi sfuggivano, ma solo perché ero ragazzino. Certo, alcuni
erano indicati come sovversivi. Sovente veniva sequestrato persino Libro e Moschetto, il giornale al quale
collaboravo».
- Com'era il panorama editoriale
alla fine della guerra? I giornalisti compromessi con il regime si
ecclissarono? Oppure successe quello che avviene sempre in Italia e cioè si
riciclarono.
«Una delle poche vittime è stato il povero Orio Vergani. Gli hanno
fatto pagare due "colpe": avere inventato la formula "adunate
oceaniche", essere stato il capo della redazione romana del Corsera».
- Tutti mitizzano Il Mondo di
Pannunzio. Ma a volte non era una gran noia?
«Io sono rimasto molto ma molto indifferente verso il Mondo che era di moda».
- Lei comincia con Oggi di Rusconi. Adesso c'è un
giornalismo che nasce nelle scuole. Com'era quello del '45 che s'imparava a
bottega?
«Io comincio con Libro e Moschetto dove recensisco libri
di Buzzati, Piovene, Emanuelli, che mi scrivono ringraziandomi. Dopo mi impegno
in un remake di Omnibus con Salvato
Cappelli e, contemporaneamente, lavoro a Oggi
e a Milano sera sotto Tommaso Giglio.
Solo nel '53 entro definitivamente a Oggi
. Allora non c'era la sicurezza del posto. Se non andavi ti sbattevano fuori».
- C'erano le regole delle cinque
W? Quali erano i modelli? Quelli che la notizia la mettevano alla fine
dell'articolo? O che cosa?
«C'era un giornalismo di ispirazione americana e un altro di tradizione
italiana. Io seguo quest'ultimo anche adesso. A volte discuto con colleghi de La Stampa dove sono soliti mettere i
testa, nel lead, il sunto del pezzo. Io sono abituato a utilizzare la piccola
trovata in fondo. Comunque dopo la guerra il giornalismo si inventava. A Oggi nessuno era professionista. Neppure
Rusconi
- Lei è stato a Milano sera, Momento sera ,Corriere
d'Informazione, Messaggero, Corsera, Repubblica, Stampa. E poi
a Settimana Incom, Oggi, Epoca, Europeo, Panorama, Espresso. Le manca in pratica di andare all'Unità e a Sole 24 ore. O
è stato pure lì?
«All'Unità ci sono stato
subito dopo la fine della guerra. Facevo le recensioni cinematografiche».
- Alle sue esperienze editoriali
è mancata la direzione di un giornale d'un settimanale maschile. Lei letterato,
impegnato, tifoso, avrebbe potuto farne uno di successo. Non glielo hanno
affidato oppure non lo ha voluto?
«Per mia natura non rifiuto mai le iniziative che mi offrono. Ho saputo
che ero stato proposto per la direzione di un settimanale. Ma un m amico
influente, quello stesso che avrebbe dovuto decidere se darmi o meno il posto,
sentenzi "Non è affidabile"».
- Scrittore, giornalista,manager
editoria le. Lei è stato in tutte le case editrici ad eccezione della Laterza. Le chiedo dunque, quali sono i
difetti delle nostre case editrici?
«Sono diventate grandi e, purtroppo, ne riescono a individuare gli
uomini adatti a guidai i diversi settori. Rizzoli e Mondadori i loro collaboratori
sapevano trovarli. Le nuove tecnologi poi hanno stravolto i rapporti tra
azienda e dipendenti. Una volta un proto contava. Avevano voce quelli delle
macchine, dei cilindri. Oggi, inoltre s'è scordata qualsiasi norma d'economia e
gli sprechi sono una regola. Quanto ai giornalisti non studiano più. E, quel
che è peggio, operano in gruppo. Emanuelli e io ci incontrammo a Venezia per un
processo contro due nazisti. Ebbene, ognuno di noi fece finta di trovarsi in
laguna per altre ragioni».
- Come ex direttore editoriale
mi sa dire quali sono invece i difetti degli scrittori italiani? Difetti di
stile, di carattere?
«Si arrabbiano. Si lamentano sempre perché vanno bene gli altri.
L'Italia è un Paese in cui la gente soffre più di invidia che di mancanza
d'affermazione. Nessuno scrittore accetta che un suo libro venga rifiutato. Io
ne ho fatto bruciare tre, quattro dei miei. Ho pagato pure le spese. I nostri
letterati chiacchierano, scrivono di se stessi e soprattutto pensano che si
possa vivere facendo l'autore. Questa è un'autentica eresia. E poi non si
lasciano consigliare. A volte ci sono pezzi di i libri discutibili. Se prova a
dire a uno: taglia questa parte, si inalbera».
- Ma nessuno riesce a indirizzarli, a guidarli?
«Ecco, manca proprio chi riesce a guidarli. Grazia Cherchi era una che
consigliava gli scrittori. O almeno ci provava. E sono in tanti ora quelli che
la rimpiangono. Io ho distrutto quei quattro libri anche perché ero sicuro che
nessuno li avrebbe letti. Si erano semplicemente fidati di me.».
- Lei appartiene alla generazione che ha
assistito all'avvento dei manager nell'editoria; che pensa del loro modo di gestire
le aziende?
«Sembra che le gestiscano per farle fallire. Per fortuna ci sono
imprese che hanno una vitalità durevole, resistente, a prova di manager,
appunto. L'editoria è un settore differente dagli altri campi industriali. E
un'area difficile anche per quelli che hanno riscosso successi nelle diverse
branche produttive».
- Quando c'erano Mondadori e
Rizzoli le cose andavano meglio. Non crede? Oppure rimpiangerli è una forma di
reducismo?
«Sarebbe una forma di reducismo se dicessi che sarebbe possibile fare
oggi quello che facevano loro due ai loro tempi. Rizzoli e Mondadori ci hanno
dato abbastanza come insegnamento. Ma non possono darci ripetizioni perché noi
si possa andare meglio nel corso degli studi».
- Dalla fine della guerra la
Mondadori e la Rizzoli hanno navigato di conserva; ora la prima sembra
distanziare l'altra che si trova in difficoltà.
Hanno chiuso l'Europeo …
«Quello dell'Europeo è stato
un lunghissimo delitto consumato attraverso i veleni soprattutto con i
frequenti cambi di direttore».
- Ora alla Rizzoli si smantella
l'area dei libri. Di ciò che succede in quella casa editrice la colpa è degli
uomini, dei tempi, della crisi del libro?
«La Rizzoli è una azienda che a
un certo punto della sua esistenza ha perduto la cognizione del suo essere. Non
ha saputo più che cosa fosse. La Mondadori è stata invece presa da gente che ci
sa fare. Quando uno fa qualcosa deve sentirla. Cantarella, della Fiat, quando
presenta le sue auto avverte delle emozioni. Alla Rizzoli non c'è nessuno che
abbia detto a qualcun altro: Bravo. Questo è fatto bene! Oppure: cretino, qui
hai sbagliato».
- A proposito di crisi. Ma questo romanzo è davvero in crisi? Dalle
vendite della Tamaro si direbbe di no. Le sue tirature superano il milione e
mezzo di copie: record invidiabile. Anche se molti storcono il naso.
«II romanzo non è in crisi. Sono in crisi i rapporti tra il romanziere
e il lettore. Il romanzo, sorta di patto sociale, è nato in Inghilterra per
merito d'uno stampatore, Samuel Richardson, desideroso di pubblicare un libro
di consigli per le ragazze che volevano farsi sposare dal padrone. Parlo di Pamela che è stata un'opera fondamentale
letta da governanti, ragazze e signore. Il romanzo dunque è nato con un
pubblico ben preciso. Ora non è in crisi. Sono in crisi i romanzieri ».
- Ecco, la Tamaro non è in crisi.
«Il libro della Tamaro è un dispiacere solo per quelli che non l'hanno
scritto. Ed è invece, un piacere per quelli che lo leggono, come testimoniano
le tirature».
- Lei con La Baldini &
Castoldi è l'ispiratore del successo editoriale della Tamaro e di quello di
Gino e Michele...
«Sono di Gino e Michele. Il
successo della Tamaro è merito di mio nipote. Alessandro Delai».
- Ma la qualità si concilia con
la quantità? Secondo qualche scrittore i due termini sono incompatibili.
«Secondo altri invece sì. Mi riferisco a quelli ai quali è andata bene
e che trovano i due termini abbastanza conciliabili. E' meglio cambiare argomento...».
- Molti considerano ancora il libro un oggetto
da leggere e da conservare: da mettere in fila con gli altri nella biblioteca.
Il libro da consumare viene invece gettato come una lattina vuota di coca cola.
Questo costume non si ritorce contro il libro stesso che perde la sua
credibilità?
«Nel periodo in cui leggo un libro io lo rispetto. Cerco di non
sciuparlo. di non gualcirlo. Poi, quando ho finito, posso decidere di buttarlo
oppure di metterlo in biblioteca insieme con gli altri. Dipende dal suo valore...».
-Non si deve anche a questo
sistema di fare libri la crisi del libro?
«L'editoria d'intrattenimento è sempre esistita anche se è stata poco
praticata nel nostro Paese. Nell'organizzazione anglosassone i tascabili, per
esempio, si lasciano in treno. Noi italiani siamo così stupiti quando
acquistiamo un libro che lo conserviamo».
- Non è un segreto che
Vittorini, suo maestro, manipolasse, a volte, le opere (degli altri) che
decideva di pubblicare. C'è ancora questo costume nell'editoria?
«Questa abitudine è andata via via sparendo. D'altra parte bisogna dire
che oggi, purtroppo, non c'è nessun Vittorini. Nel cambio ci abbiamo, comunque,
rimesso tutti. L'americano Saroyan tradotto da lui è un capolavoro. Tradotto da
altri è una ciofeca».
- Perché si manipolano i libri? Per correggerne gli svarioni? Per
renderli più appetibili? Per farli consumare meglio? Ma allora che letteratura
è ormai questa?
«A volte si manipolano, mi riferisco ai classici, per adattarli al
tempo in cui viviamo. La casistica è ormai ampia. Questo sistema può essere
utile ma fino ad un certo punto. Ad esempio il libro su Seneca per i manager
pubblicato da una casa editrice, è in grado di appassionare e di divertire. Ma non credo che i manager siano disposti
a seguire fino all'ultimo l'insegnamento di Seneca. Ovvero di giungere al
suicidio».
- Lei sta ripubblicando gli
scritti di Brera, un giornalista del quale si avverte l'assenza. Ci manca. Ad
amici e a nemici. Non è vero.
«Brera manca soprattutto ai suoi nemici. Non sanno più che cosa dire.
Con lui è finita la chiacchiera sportiva».
- Lei ha diretto i Gialli di
Mondadori. Mi spiega perché in un Paese che attua le peggiori trame non c'è un
giallista di genio?
«Il fatto è che da noi sono più bravi quelli che commettono delitti e
trame di quelli che li descrivono. I nostri delinquenti sono dei maestri. La
realtà supera la fantasia. Comunque durante il fascismo abbiamo avuto un buon
giallista. Si chiamava Augusto De Angelis. Ha scritto delle belle storie dove
c'era un commissario che già anticipava il personaggio di Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda. C'è stato poi
Giorivere facendo l'autore. Questa a di origine italiana. Abbiamo dei buoni
scrittori come Renato Olivieri».
- Scrittore e manager in tutte le case editrici
che contano non ha vinto un premio letterario: Strega, Campiello. Non ama le
combine o non crede nei premi?
«Non ho mai partecipato ad alcun premio. Ma non per sdegno. Se uno
partecipa ad una competizione la deve prendere sul serio. E prendere le cose
sul serio non è nel mio carattere. Ultimamente, comunque. ho cominciato a ricevere
qualche riconoscimento non richiesto».
- Lei ci ha provato anche con il
teatro. Com'è finita? Non sempre i romanzieri risultano buoni scrittori
teatrali o che cosa?
«Ho scritto una sola pièce teatrale Niente
per amore per fare una cortesia a Enriquez e alla Moriconi. E ho scoperto
che con il teatro si può guadagnare anche scrivendo delle schifezze. Accertato
questo ho smesso. E poi mi interessava meno sottopormi all'esame ogni sera. Con
il libro ti danno il voto una volta e via. Con il teatro sei giudicato sempre».
- Lei è uno specialista di gialli, di fumetti,
di pubblicità: campi che comunemente vengo-no considerati dei sottoprodotti
culturali. Perché li ama?
«Amo anche il cinema ed il calcio. Li ho tutti cari perché erano
argomenti che riuscivano indigesti ai miei genitori. A me invece divertivano e
ci ho campato. Quando poi gli altri se ne cominciano a interessare mi passa la
voglia».
- Oggi il fumetto non è più un genere popolare.
Perché? Siamo diventati più seri? Incombono problemi più gravi che non ci consentono
di farci distrarre neppure dalla «striscia» intelligente?
«Siamo diventati più superficiali, più leggeri. La televisione ci fa
risparmiare la fatica di leggere».
-Il fumetto è diventato materia per intellettuali.
E' un bene oppure un male?
«E' sempre un male soprattutto quando l'intellettuale pratica la
materia soltanto per parlarne».
- Non crede che certi intellettuali utilizzino
i fumetti come i politici i bambini: per far parlare di sé e per apparire più
popolari?
«Però non gli rendono, perché il loro interesse nasconde la malafede. E
quindi non si divertono. Il divertimento deve essere la sola spinta per
praticare la narrativa amena. Un vero maestro è,
invece, Umberto Eco perché si è interessato a tutti i generi minori e ha
contribuito al loro inquadramento. Ma ha proseguito nella sua carriera che è
quella del ricercatore, dello scienziato. Bisogna praticare tutti gli interessi
che attraggono. E qualsiasi impegno va esercitato con il rispetto per la
materia ».
- Che differenza c'è tra la
satira di destra e quella di sinistra? Che i destri sfottono i sinistri e
viceversa? Oppure il sarcasmo nasce da elementi diversi?
«Dire d'una satira che è di
sinistra o di destra significa parlare d'una satira imperfetta. La satira è
principalmente una reazione al potere. Quindi si muove in contrapposizione con
chi comanda. I craxiani quando erano nella stanza dei bottoni non potevano
praticarla per ovvie ragioni. La satira poi può essere in certi momenti fine,
in certi altri cacaiola. Subito dopo la guerra, la critica mordace, la
caricatura, era praticata solo dalla destra. Noi con Linus, abbiamo cercato di
completare il quadro. Non c'è dunque una satira di destra e una di sinistra.
Sovente la collochiamo erroneamente nella posizione politica di colui che la
pratica».
- Il fumetto è nato a destra oppure a
sinistra?
«Il fumetto è come il cinema. I
due settori non hanno mai avuto una colorazione politica».
- Nipote dell'eroe di Malta (luglio del '41) ma anche intellettuale di
sinistra. Ci crede ancora nella patria? «Sì, ci ho sempre creduto. Quello
che barcolla dentro di me è il concetto di nazione».
- Lei è uno stakanovista della
macchina per scrivere: ha una rubrica settimanale alla Stampa, una all'Espresso;
dirige «Linus», "legge" i libri per Baldini & Castoldi, ha sempre
un romanzo in corso, traduce dal francese e dall'inglese. Che fa, ha dei negri?
«Tra le mie molte attività ho fatto anche il negro dell'editoria, ma
non ho negri».
- La crisi delle ideologie ha
appannato, messo in secondo piano la figura dell'intellettuale che con le ideologie
aveva, come dire, un rapporto
privilegiato. Alcuni ci mangiavano addirittura. Qual è oggi la fisionomia del
nostro intellettuale? A chi assomiglia? Chi è il prototipo?
«Purtroppo non li frequento più. Ne vedo pochi. Incontro invece molte persone
travestite da intellettuali»
- Lei è famoso anche per il numero di volte in
cui si è dimesso dalla posizione che occupava. Da cosa nasce questa vocazione?
«Dal desiderio di non avere rapporti abitudinari. Insomma a me piace
lavorare in un posto finché c'è feeling da una parte e dall'altra.
- Eppure nonostante questa sua mania, che dovrebbe averla resa
inaffidabile, lei è amato. Perché crede che le case editrici la riaccolgono?
«Perché cerco di dare meno fastidio possibile».
- I molti personaggi dei suoi
libri sono stati presi dalla realtà: amici e nemici suoi sovente trasformati in
macchiette. Si sono riconosciuti questi amici e nemici? Come l'hanno presa?
L'hanno mai sfidata a duello? Promesso schiaffi? Gli amici si fidano ancora di
parlare davanti a lei? Di raccontarle fatti personali con il rischio di
vederseli stampati in un libro?
«Non si è riconosciuto nessuno. Hanno riconosciuto me. Spietatamente
me. D' altra parte io ho sempre parlato in prima persona. Ora che ci penso però
uno si è riconosciuto: mio cognato Saverio Tutino. Ma perché ho fatto nome e
cognome. Si lamenta che l'ho descritto da partigiano con fiori, chitarre e
bandiere. Lui assicura che non è assolutamente vero».
- Lei ha ripreso la direzione di Linus. Un
giornale, un periodico, è l'espressione del suo direttore. Linus è un giornale
per giovani. Lei è un direttore, diciamo, su con gli anni. Come fa a mettersi
in sintonia con quelli che hanno anche
cinquant'anni meno di lei?
«Vuole dire che sono rimbambito?
Allora sappia che il prossimo giornale Io farò per gli asili. Asili Riuniti».
- Ho letto che crede in Dio. In
quello che ammette l'aborto, il divorzio, i preservativi oppure in quell'altro
intransigente che punisce con l'inferno e premia con il paradiso?
«Sì, credo in Dio. Ho pregato.
Continuo a pregare. Ma unitamente incontro sempre più difficoltà».
- Perché incontra sempre più
difficoltà nel credere in Dio?
«Sono imbarazzi provocati dal numero sempre più elevato di coloro i
quali hanno vissuto da atei e morendo si convertono all'ultimo momento».
- E che cosa conta di fare?
«Penso di tornare al sano
ateismo».
- Lei li ha trascorsi tutti con
l'impegno questi 50 anni che ci separano dalla fine della guerra; che ne pensa
di questa Italia? Poteva andare peggio oppure doveva andare meglio?
«Secondo quello che si pensava allora, doveva andare molto ma molto
meglio. Mi chiedo ora se eravamo troppo ingenui oppure troppo presuntuosi».
- Nel '92 lei ha detto che voleva andare via da Milano per sempre come
Consolo che protestava contro la Lega. Ci ha ripensato anche lei?
«Io non ci ho ripensato. Non me
ne sono mai voluto andare. Ho detto solo, polemizzando con un collega del Corriere, che mi facevano passare la
voglia di stare a Milano»
- Ultima domanda: a lei,
milanista: ma questo Sacchi, che inventa una nazionale al mese, le piace?
«Assolutamente no. Ho solo paura che...».
- Che paura ha?
«Che Berlusconi se lo riprenda».
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