Elba isola di poeti e narratori

Elba isola di poeti e narratori è un'antologia, ma non un' antologia critica perché non sono una critica, né desidero esserlo. E' il percorso di una lettrice che ha con la parola scritta un rapporto emotivo, empatico, emozionale e non intellettuale, che tenterà di dare uno sguardo sugli scrittori elbani e sull’Elba nella letteratura.

sabato 1 giugno 2013

Brignetti, il mare e l'impossibile individuazione di Noemi Paolini Giachery

Un saggio che merita di essere letto per entrare nell'opera di Brignetti, un testo critico che è comprensibile anche per i non addetti ai lavori, come me, e nel quale emerge la pianta uomo Brignetti con chiarezza e nei cui rami, spesso, possiamo ritrovarci in quanto isolani.

BRIGNETTI, IL MARE, L'ISOLA E L'IMPOSSIBILE INDIVIDUAZIONE 

Dichiaratamente antiaccademico e antintellettualistico, uno scrittore come Raffaello Brignetti non per questo si presenta semplice e lineare alla lettura e alla interpretazione.
Una «foresta di simboli» (per citare il suo prediletto Baudelaire) ci viene incontro e ci immette nel suo intrico. È vero  che i simboli di Brignetti sfuggono alla razionalizzazione: nel suo universo ogni tentativo di definizione risulta frustrato e l'oggetto da definire si sottrae, si maschera. La vera ideologia di Brignetti è il rifiuto dell'ideologia. Uno spirito fenomenologico lo porta a sentire l'impossibilità di ridurre a schema la multiforme e fluida esperienza reale da cui pure non può prescindere la vera conoscenza. Per questo la sua scrittura si apre in misura estrema all'ambiguità, alla polisemia.
Tuttavia il lettore di Brignetti cui l'autore trasmette la sua inquietudine è diviso tra la volontà di abbandonarsi alla suggestione dei singoli momenti, delle immagini, dei colori, delle atmosfere, delle pause liriche e contemplative - e delle parole che mediano i significati -, e la curiosità per i sensi riposti che si intuiscono quanto mai ricchi e complessi. Per dirla con le sue stesse parole «sarebbe bello osservare questa forma liberamente, questa esistenza, un'astrazione ormai»; ma l'indagine faticosa - e forse alienante - si impone categoricamente. L' interprete critico non può sottrarsi al tormento di chi sente contraddittoria la propria funzione di «philosophus additus artifici», cioè di accanito teorizzatore impegnato nello snaturare, razionalizzando a tutti i costi, un messaggio linguistico che dice la sua specifica verità proprio scegliendo un linguaggio polivalente e ambiguo e respingendo la riduttiva univocità della logica indispensabile per altre imprese conoscitive.

Ma, a guardar bene, Brignetti è più philosophus di quanto non si possa pensare a una prima impressione. Anche se non sai mai se la sua ricerca filosofica si avvalga di letture dirette di filosofi veri e propri o anche di poeti nutriti di pensiero fermentante e ossimorico, come è sempre quello cosiddetto «poetante». «Non ho guardato tutti i libri. Ho guardato il mare» (e pensiamo alla memorabile immagine montaliana del mare-libro: «Altri libri occorrevano / a me, non la tua pagina rombante»).
Volendo contribuire all'esplorazione dell'ossimorico universo di Brignetti un lettore che abbia particolarmente presente la poesia di Ungaretti e ricordi che di Brignetti Ungaretti fu maestro, pur non sapendo quanto, e se, l'allievo abbia frequentato i testi del grande poeta, è subito orientato - o condizionato - a cogliere e a considerare centrale anche nell'opera del narratore, pur nella diversa sponda della letteratura sulla quale egli si muove, una bipolarità che è addirittura strutturale nell'opera di Ungaretti, quella di «misura» e «mistero», con le sue molteplici applicazioni e implicazioni.
Nell'arduo e sfuggente mondo del narratore ci colpisce anzitutto una rigorosa tensione per «fare il punto», in senso specifico e in senso traslato (cioè sia del luogo, in orizzontale con le coordinate e in verticale con le indicazioni batimetriche, sia dell'identità individuale, o anche universalmente umana). Ma scopriamo anche che tale tensione, anziché risolversi in un risultato rassicurante, concorre proprio ad accentuare la dispersione, lo smarrimento in un inde-finibile tutto/nulla. Le trame, i percorsi delle navigazioni reali e simboliche, che sono un tema fondamentale, quanto più esibiscono traiettorie regolari - come in una liquida scacchiera - tanto più sono frustrate e disperse dall'informalità del mare che è insieme tempo e atemporalità (cioè tempo non come scansione, misura, ma come continuum, indefinito, che appunto per la sua indefinitezza assume, se immaginato nella sua totalità, la fermezza di un assoluto). «Il colore del mare è nero», «il mare è come il tempo che avvolge tutto, anche le stelle». Infatti, se talora, in questo conflitto tra geometria formale e informalità magmatica, può sembrare che a una superiore e vittoriosa misura alludano le geometrie stellari, non solo essa scoraggia per la sua soverchiante e indifferente disumanità, ma insinua il sospetto che si tratti di una geometria illusoria. L'unica certezza, l'unica norma sicura che si impone in questo mondo di inafferrabili parvenze è la morte, nera come il mare, che conclude e unifica in un punto, con misteriose concordanze, le varie navigazioni o si affaccia puntualmente in alternanza con la vita.
 Il grado zero, la punta massima del pessimismo di Brignetti si ha quando scompaiono mare e isola, anche come referenti ideali: penso all'unico racconto lacustre, per altro indimenticabile, dove domina una morte disumana e annientante. Dove, invece, è pie sente l'universo familiare e amato dell'autore con i suoi archetipi del mare e dell'isola, la speranza del «varco» verso il senso non si consuma totalmente nell'annullamento materiale  ma, come in tutte le ipotesi spiritualistiche e gli itinerari «iniziatici», passa attraverso l'esperienza del negativo per tendere oltre.
 La tensione porta spesso a raccogliere e a registrare una molteplicità di segni dell'universo sensibile, nonostante l' impossibilità di disporli in rapporti gerarchici, in strutture d'ordine conoscitivo ed etico. Proprio grazie a questa tensione, però, siamo ben lontani dall' école du regard, che registrava con impassibile neutralità dati esterni privi di ogni relazione o gradazione di valore, per appiattirli su un comune livello di insignificanza e denunciare così l'insensatezza del reale. La negazione  di ogni ipotesi di senso era tesi fin troppo coerente e pacifica nei narratori di quella corrente, a cui impropriamente è stata accostata la scrittura di Brignetti.
In Brignetti, che brancola nel caos dei segni non rassegnandosi a rinunciare definitivamente all'ipotesi di un ordine, resiste l'intuizione che il senso sfugga non perché vacuo e inconsistente ma perché «maggiore della testa d'un uomo» che non può capire «quali avvenimenti siano davvero minori».
 È dunque probabile che esistano, nella molteplicità metamorfica del mondo, che può apparire caotica e insignificante, avvenimenti e valori maggiori e minori e non è detto che l'assoluto sia, come può talvolta sembrare, quella «dimensione unica» dove le cose si perdono in quel «mare incolore grande», quel «mare capace di cancellare tutto dentro di sé». Forse, invece, proprio in una dimensione totale e alta, in una prospettiva globale e cosmica - se non addirittura ultramondana - è possibile che l'«individuo ineffabile» trovi la parola che lo designa e lo svela salvandone insieme assolutezza e relazione. In rari casi una sorta di illuminazione sembra provenire dal particolare minuto, umile che trova nobiltà e valore nel valore stesso della originarietà e dell'umiltà (opera qui l'antintellettualismo dello scrittore che arriva a manifestarsi come diffidenza nei confronti della stessa parola umana). Ma, tanto per non rinunciare all'inevitabile ossimoro, l'umiltà di questo mito arcaico-domestico-arcadico ha un contrassegno aristocratico: l'isola, che più si presta ad accogliere  questo mito, è terra d'élite.
A questo punto dobbiamo proprio fermarci sull'isola. L'isola è appunto il luogo dove si può sostare anche solo col pensiero, è il luogo della «solidità», della «stasi»: «benché forse illusoria», aggiunge subito l'autore.
Anche se insidiata dal dubbio che insidia tutto il pensiero umano, l'idea dell'isola è un referente primario che si carica di sensi multipli connotanti positività. È primario anche il senso di una originarietà arcaica - è la terra dell'infanzia - che sembra garantire naturalezza e innocenza: in definitiva autenticità (più volte parlando di Brignetti mi trovo a rifarmi al repertorio di temi e parole del pensiero fenomenologico novecentesco e, anche in questo caso, mi domando se la coincidenza sia casuale, oppure legata a quel principio «dei vasi comunicanti» che sembra applicabile anche in campo antropologico e culturale, oppure dovuta a effettive letture e conoscenze da parte del nostro autore).
L'isola è natura, non storia. Anche il mito del passato, di un tempo anteriore al degrado tecnologico e alla banalizzazione turistica (ma il motivo ecologico non va inteso in termini di facile sociologismo perché si dilata verso sensi più vasti) ha un valore metastorico, si contrappone appunto alla storia. Si tratta di ritrovare «la radice che è in fondo, da dove si nasce». Solo in questa dimensione aurorale dell'isola mitica sembrerebbe attuarsi l'individuazione (ma anche questa volta si tratterà di un'illusione). Là l'individuo si manifesta come assoluto dotato di ontologica pregnanza, prima del confronto con l'alterità. Nell'isola «un paese è il paese», lì «le persone chiamano i posti come sono» («spiaggia dell'oca», «golfo delle calme»). Artificiale e inautentica è l'istituzione che scheda e impone nomi e cognomi, e riconosce le persone dal mestiere alienandone la vera identità: a scuola «il nome e il cognome lo dicono. Fuori non importa»; «l'uomo non è il suo mestiere»; e anche i cani non «sono da guardia, sono cani». E dire «uomo» o dire «cane» non significa richiamare l'idea di cane o di uomo ma evocare quel cane e quell'uomo che nessuno confonderebbe con un altro cane e con un altro uomo perché conta «averli frequentati», non «sentirli dire». (Aggiungerei, per mia diretta esperienza, che noi elbani per indicare l'Elba abbiamo sempre detto solo «l'isola»).
Lì «tutto è pieno di cose che si sanno, di riparo». Per chi si trova nel «riparo dell'isola» e porta in sé, introiettato tanto da formare un'unitaria globalità, l'universo noto e familiare, l'alterità, «l'altro posto» è rappresentato dal «continente», un continente che è quasi solo un'ipotesi, un'astrazione.
Finché non ci si sposta dall'isola: 

Ma eravamo andati su un'altra terra. Per la prima volta nella vita avevamo lasciato la nostra isola. E la vedevamo da fuori. Ci accorgevamo che l'isola si era trasformata in un mondo ben definito.
Pare dunque che l'individuazione abbia anche bisogno del distacco, dell'esperienza dell'alterità; pare che non sia concepibile identità senza relazione. Difficile superare questa aporia.
Una via per tentare di conciliare assolutezza e relazione, che si rivelano componenti necessarie per l'individuazione, può trovarsi trasferendo nell'interiorità l'isola, il cui vero valore sembra coincidere, a questo punto, con la sua funzione di referente trascendentale. Come in ogni itinerario iniziatico il dato originario, naturale, deve perdersi per essere ritrovato su un altro piano trasfigurato in dato coscienziale, in mito mentale.
Così diviene lievito di vita interiore. E dell'arte che la esprime (aggiungerei benché non autorizzata per la mancanza, nel discorso di Brignetti, non tanto di spunti metalinguistici quanto di allusioni a una qualsiasi poetica o estetica).

Si può stare anche in altre parti, bene o male, ma io so che esiste l'isola, dove il mondo e la gente sono la stessa cosa; il mare intorno gira; l'isola è ferma.
L'isola mi sembra più vicina del continente, eppure c'è il mare: io dico che è più semplice l'isola, più felice, perfino immaginaria; perciò siccome questo è spontaneamente umano mi sembra vicina.
Questo carattere metafisico e mentale assume con più evidenza l'isola nella Spiaggia d'oro, un approdo più tardo (la metafora è assai pertinente) del narratore Brignetti. Anche se mi sembra che il capolavoro di questo autore sia Il gabbiano azzurro (ho escluso per mio minore interesse gli scritti che non partecipano della natura anadiomene delle opere maggiori), concentro la mia attenzione sul lungo racconto posteriore perché in questo libro, che sembra respirare un'atmosfera più rarefatta e assorta e procedere con più lento passo, in realtà confluiscono e convivono tutti i motivi e tutte le più contraddittorie ipotesi della ricerca di senso perseguita dall'autore (direi che le contraddizioni esplodono se la metafora questa volta non contrastasse con l'andamento pacato e il tono sommesso della narrazione).
Alla bipolarità di assoluto e relativo, di casuale e necessario (se non addirittura di provvidenziale), di reale e immaginario, di uguale e vario se ne aggiungono tante altre. Quella, per esempio, di felicità e sofferenza, di bene e male. Appare chiaro che sul piano dell'autentica umanità, quella particolarmente rappresentata dal personaggio innocente e «curioso» della bambina, perché il bene sia bene anche il male deve essere male, perché ci sia la speranza deve esserci la paura («i bambini avevano paura e speranza»; e «solo i bambini hanno certe paure perché sentono il diavolo»). Una sorta di diavolo o di infernale Caronte appare con il volto «lanuto e arcano» dello strano personaggio che ha l'allusivo nome di Nequa.
Solo l'indifferenza è disumana. E una Natura indifferente e monumentale, di evocazione leopardiana, richiama la figura della donna, misteriosa portatrice di una fisicità quasi preumana («non sai mai se cattiva o no»).
Ritorna nel romanzo anche la contrapposizione di informale e geometrico ed è proprio la bambina a tracciare nel suo gioco, che è poi l'eterna, umana ricerca della determinazione, quadrati, triangoli, rettangoli, trapezi. Perché «bisogna stare alle proporzioni», dice l'uomo, per salvare «la misura umana» costruendo  la nave che solca il mare «illogico» e «indicibile». Ma la logica di quelle geometrie è una logica senza parole e appartiene alla sfera della concretezza, del fare. La gente, per costruire la nave, «ha fatto e basta» (Più tardi oltre la concretezza del fare si affermerà la concretezza dell'essere: «non ha detto fare ma essere»). Le parole sono felicemente vive quando, anziché dire concetti, si prestano a un gioco creativo e vagante  cui la fantasia della bambina può felicemente abbandonarsi girando  intorno al mistero dell'individuazione («la nave.., è un tetto, un gatto». A quel libero  volo che si apre alle infinite potenzialità dell'essere evocando «nuvole», «penne», «uccelli» si oppone, nel libro,  lo sterile realismo del vecchio che, con l'intento di rassicurare, riporta sul piano di una inerte ovvietà: «Saremo tutti uomini e tutti a posto».
L'aura entro cui si muove lo scrittore Brignetti in tutti i suoi testi più maturi e più alti (non abbiamo certo stentato a capirlo) è lontanissima dalle pianure del realismo sulle quali sembravano restare certe sue narrazioni giovanili. il «vero» che egli persegue non è la piatta e univoca verità di superficie ma è, secondo una sua enunciazione, «una verità che c'è, che a volte o una sola volta si vede, ma che forse non giunge a tempo per tutti. Perché anche quella vera, quella unica, non sembra uguale neppure a se stessa».
La tensione dinamica di questa ricerca di un oggetto sfuggente che si conquista - ammesso che ciò sia possibile - solo per approssimazione, si riflette, naturalmente, nella scrittura. La sospensione resta anche quando manca, nell'andamento del discorso, ogni concitazione e prevale un animus contemplativo e assorto.
Spesso entrano nel gioco narrativo tempi sfasati e identità sfocate e divise che cercano vanamente di coincidere (non di rado si scopre la non coincidenza tra la persona di cui si parla in assenza e la persona che poi si trova in carne ed ossa). Forse anche per questo, come è stato notato, Brignetti non è creatore di personaggi e i suoi ritratti sono quasi informali e astratti. L'individuo tanto cercato forse c'è ma è inafferrabile e indicibile.  Nella Spiaggia d'oro i personaggi principali sono l'uomo, la bambina, il vecchio, la donna.
A questa astrazione contribuisce anche la scelta linguistica che elimina ogni denominazione istituzionalizzata della geografia o della cronaca. Ma noi sappiamo che si tratta di un'astrazione in vista di una diversa concretezza, quella così prepotentemente espressa dai termini del dialetto dell'Elba (l'isola mai nominata), che si affacciano qua e là in una scrittura che si mantiene in complesso a un livello medio-alto. Parole come sciabatticare, spavicchiare, zampicare, puzzore con la loro corposità quasi aggressiva sono il segno di quella singolarità privata e interiore così carica di senso profondo e simbolico. L'humus filosofico e totalizzante (di una filosofia fatta, come sappiamo, di risposte-non risposte, cioè di aperti paradossi) in cui sono trapiantate quelle parole evocative e quasi magiche tende (non so se all'intenzione corrisponda sempre il risultato) a liberarle da ogni esteriore coloritura folklorica e a sottrarre il plurilinguismo a ogni impressione di pastiche.
Ma a questo punto si aprirebbe un nuovo discorso.

Noemi Paolini Giachery

Il saggio è tratto da 




Noemi Paolini Giachery , In cerca della  « pianta uomo», Antonio Stango Editore, 203 pp.96-104

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