Un saggio che merita di essere letto per entrare nell'opera di Brignetti, un testo critico che è comprensibile anche per i non addetti ai lavori, come me, e nel quale emerge la pianta uomo Brignetti con chiarezza e nei cui rami, spesso, possiamo ritrovarci in quanto isolani.
BRIGNETTI, IL MARE, L'ISOLA E L'IMPOSSIBILE INDIVIDUAZIONE
Dichiaratamente antiaccademico e
antintellettualistico, uno scrittore come Raffaello Brignetti non per questo si
presenta semplice e lineare alla lettura e alla interpretazione.
Una «foresta di simboli» (per citare il suo
prediletto Baudelaire) ci viene incontro e ci immette nel suo intrico. È vero che i simboli di Brignetti sfuggono alla
razionalizzazione: nel suo universo ogni tentativo di definizione risulta
frustrato e l'oggetto da definire si sottrae, si maschera. La vera ideologia di
Brignetti è il rifiuto dell'ideologia. Uno spirito fenomenologico lo porta a
sentire l'impossibilità di ridurre a schema la multiforme e fluida esperienza
reale da cui pure non può prescindere la vera conoscenza. Per questo la sua
scrittura si apre in misura estrema all'ambiguità, alla polisemia.
Tuttavia il lettore di Brignetti cui l'autore
trasmette la sua inquietudine è diviso tra la volontà di abbandonarsi alla
suggestione dei singoli momenti, delle immagini, dei colori, delle atmosfere,
delle pause liriche e contemplative - e delle parole che mediano i significati
-, e la curiosità per i sensi riposti che si intuiscono quanto mai ricchi e
complessi. Per dirla con le sue stesse parole «sarebbe bello osservare questa
forma liberamente, questa esistenza, un'astrazione ormai»; ma l'indagine faticosa
- e forse alienante - si impone categoricamente. L' interprete critico non può
sottrarsi al tormento di chi sente contraddittoria la propria funzione di «philosophus additus artifici», cioè di
accanito teorizzatore impegnato nello snaturare, razionalizzando a tutti i
costi, un messaggio linguistico che dice la sua specifica verità proprio
scegliendo un linguaggio polivalente e ambiguo e respingendo la riduttiva
univocità della logica indispensabile per altre imprese conoscitive.
Ma, a guardar bene, Brignetti è più philosophus di quanto non si possa
pensare a una prima impressione. Anche se non sai mai se la sua ricerca
filosofica si avvalga di letture dirette di filosofi veri e propri o anche di poeti
nutriti di pensiero fermentante e ossimorico, come è sempre quello cosiddetto «poetante».
«Non ho guardato tutti i libri. Ho guardato il mare» (e pensiamo alla
memorabile immagine montaliana del mare-libro: «Altri libri occorrevano / a me,
non la tua pagina rombante»).
Volendo contribuire all'esplorazione dell'ossimorico
universo di Brignetti un lettore che abbia particolarmente presente la poesia
di Ungaretti e ricordi che di Brignetti Ungaretti fu maestro, pur non sapendo
quanto, e se, l'allievo abbia frequentato i testi del grande poeta, è subito
orientato - o condizionato - a cogliere e a considerare centrale anche
nell'opera del narratore, pur nella diversa sponda della letteratura sulla
quale egli si muove, una bipolarità che è addirittura strutturale nell'opera di
Ungaretti, quella di «misura» e «mistero», con le sue molteplici applicazioni e
implicazioni.
Nell'arduo e sfuggente mondo del narratore ci
colpisce anzitutto una rigorosa tensione per «fare il punto», in senso
specifico e in senso traslato (cioè sia del luogo, in orizzontale con le
coordinate e in verticale con le indicazioni batimetriche, sia dell'identità
individuale, o anche universalmente umana). Ma scopriamo anche che tale
tensione, anziché risolversi in un risultato rassicurante, concorre proprio ad
accentuare la dispersione, lo smarrimento in un inde-finibile tutto/nulla. Le
trame, i percorsi delle navigazioni reali e simboliche, che sono un tema
fondamentale, quanto più esibiscono traiettorie regolari - come in una liquida
scacchiera - tanto più sono frustrate e disperse dall'informalità del mare che è
insieme tempo e atemporalità (cioè tempo non come scansione, misura, ma come continuum, indefinito, che appunto per
la sua indefinitezza assume, se immaginato nella sua totalità, la fermezza di
un assoluto). «Il colore del mare è nero», «il mare è come il tempo che avvolge
tutto, anche le stelle». Infatti, se talora, in questo conflitto tra geometria
formale e informalità magmatica, può sembrare che a una superiore e vittoriosa
misura alludano le geometrie stellari, non solo essa scoraggia per la sua soverchiante
e indifferente disumanità, ma insinua il sospetto che si tratti di una geometria
illusoria. L'unica certezza, l'unica norma sicura che si impone in questo mondo
di inafferrabili parvenze è la morte, nera come il mare, che conclude e unifica
in un punto, con misteriose concordanze, le varie navigazioni o si affaccia puntualmente
in alternanza con la vita.
Il grado
zero, la punta massima del pessimismo di Brignetti si ha quando scompaiono mare
e isola, anche come referenti ideali: penso all'unico racconto lacustre, per
altro indimenticabile, dove domina una morte disumana e annientante. Dove,
invece, è pie sente l'universo familiare e amato dell'autore con i suoi
archetipi del mare e dell'isola, la speranza del «varco» verso il senso non si
consuma totalmente nell'annullamento materiale
ma, come in tutte le ipotesi spiritualistiche e gli itinerari
«iniziatici», passa attraverso l'esperienza del negativo per tendere oltre.
La tensione
porta spesso a raccogliere e a registrare una molteplicità di segni
dell'universo sensibile, nonostante l' impossibilità di disporli in rapporti
gerarchici, in strutture d'ordine conoscitivo ed etico. Proprio grazie a questa
tensione, però, siamo ben lontani dall' école
du regard, che registrava con impassibile neutralità dati esterni privi di
ogni relazione o gradazione di valore, per appiattirli su un comune livello di
insignificanza e denunciare così l'insensatezza del reale. La negazione di ogni ipotesi di senso era tesi fin troppo
coerente e pacifica nei narratori di quella corrente, a cui impropriamente è
stata accostata la scrittura di Brignetti.
In Brignetti, che brancola nel caos dei segni non
rassegnandosi a rinunciare definitivamente all'ipotesi di un ordine, resiste
l'intuizione che il senso sfugga non perché vacuo e inconsistente ma perché
«maggiore della testa d'un uomo» che non può capire «quali avvenimenti siano
davvero minori».
È dunque
probabile che esistano, nella molteplicità metamorfica del mondo, che può
apparire caotica e insignificante, avvenimenti e valori maggiori e minori e non
è detto che l'assoluto sia, come può talvolta sembrare, quella «dimensione
unica» dove le cose si perdono in quel «mare incolore grande», quel «mare
capace di cancellare tutto dentro di sé». Forse, invece, proprio in una
dimensione totale e alta, in una prospettiva globale e cosmica - se non
addirittura ultramondana - è possibile che l'«individuo ineffabile» trovi la
parola che lo designa e lo svela salvandone insieme assolutezza e relazione. In
rari casi una sorta di illuminazione sembra provenire dal particolare minuto,
umile che trova nobiltà e valore nel valore stesso della originarietà e
dell'umiltà (opera qui l'antintellettualismo dello scrittore che arriva a
manifestarsi come diffidenza nei confronti della stessa parola umana). Ma,
tanto per non rinunciare all'inevitabile ossimoro, l'umiltà di questo mito
arcaico-domestico-arcadico ha un contrassegno aristocratico: l'isola, che più
si presta ad accogliere questo mito, è
terra d'élite.
A questo punto dobbiamo proprio fermarci sull'isola.
L'isola è appunto il luogo dove si può sostare anche solo col pensiero, è il
luogo della «solidità», della «stasi»: «benché forse illusoria», aggiunge
subito l'autore.
Anche se insidiata dal dubbio che insidia tutto il
pensiero umano, l'idea dell'isola è un referente primario che si carica di
sensi multipli connotanti positività. È primario anche il senso di una originarietà
arcaica - è la terra dell'infanzia - che sembra garantire naturalezza e
innocenza: in definitiva autenticità (più volte parlando di Brignetti mi trovo
a rifarmi al repertorio di temi e parole del pensiero fenomenologico
novecentesco e, anche in questo caso, mi domando se la coincidenza sia casuale,
oppure legata a quel principio «dei vasi comunicanti» che sembra applicabile
anche in campo antropologico e culturale, oppure dovuta a effettive letture e
conoscenze da parte del nostro autore).
L'isola è natura, non storia. Anche il mito del
passato, di un tempo anteriore al degrado tecnologico e alla banalizzazione
turistica (ma il motivo ecologico non va inteso in termini di facile
sociologismo perché si dilata verso sensi più vasti) ha un valore metastorico,
si contrappone appunto alla storia. Si tratta di ritrovare «la radice che è in
fondo, da dove si nasce». Solo in questa dimensione aurorale dell'isola mitica
sembrerebbe attuarsi l'individuazione (ma anche questa volta si tratterà di
un'illusione). Là l'individuo si manifesta come assoluto dotato di ontologica
pregnanza, prima del confronto con l'alterità. Nell'isola «un paese è il
paese», lì «le persone chiamano i posti come sono» («spiaggia dell'oca», «golfo
delle calme»). Artificiale e inautentica è l'istituzione che scheda e impone
nomi e cognomi, e riconosce le persone dal mestiere alienandone la vera
identità: a scuola «il nome e il cognome lo dicono. Fuori non importa»; «l'uomo
non è il suo mestiere»; e anche i cani non «sono da guardia, sono cani». E dire
«uomo» o dire «cane» non significa richiamare l'idea di cane o di uomo ma evocare
quel cane e quell'uomo che nessuno confonderebbe con un altro cane e con un
altro uomo perché conta «averli frequentati», non «sentirli dire».
(Aggiungerei, per mia diretta esperienza, che noi elbani per indicare l'Elba
abbiamo sempre detto solo «l'isola»).
Lì «tutto è pieno di cose che si sanno, di riparo».
Per chi si trova nel «riparo dell'isola» e porta in sé, introiettato tanto da
formare un'unitaria globalità, l'universo noto e familiare, l'alterità,
«l'altro posto» è rappresentato dal «continente», un continente che è quasi
solo un'ipotesi, un'astrazione.
Finché non ci si sposta dall'isola:
Ma eravamo andati su un'altra terra. Per la prima volta nella vita avevamo lasciato la nostra isola. E la vedevamo da fuori. Ci accorgevamo che l'isola si era trasformata in un mondo ben definito.
Pare dunque che l'individuazione abbia anche bisogno
del distacco, dell'esperienza dell'alterità; pare che non sia concepibile
identità senza relazione. Difficile superare questa aporia.
Una via per tentare di conciliare assolutezza e
relazione, che si rivelano componenti necessarie per l'individuazione, può trovarsi
trasferendo nell'interiorità l'isola, il cui vero valore sembra coincidere, a
questo punto, con la sua funzione di referente trascendentale. Come in ogni
itinerario iniziatico il dato originario, naturale, deve perdersi per essere
ritrovato su un altro piano trasfigurato in dato coscienziale, in mito mentale.
Così diviene lievito di vita interiore. E dell'arte
che la esprime (aggiungerei benché non autorizzata per la mancanza, nel
discorso di Brignetti, non tanto di spunti metalinguistici quanto di allusioni
a una qualsiasi poetica o estetica).
Si può stare anche in altre parti, bene o male, ma io so che esiste l'isola, dove il mondo e la gente sono la stessa cosa; il mare intorno gira; l'isola è ferma.
L'isola mi sembra più vicina del continente, eppure c'è il mare: io dico che è più semplice l'isola, più felice, perfino immaginaria; perciò siccome questo è spontaneamente umano mi sembra vicina.
Questo carattere metafisico e mentale assume con più
evidenza l'isola nella Spiaggia d'oro,
un approdo più tardo (la metafora è assai pertinente) del narratore Brignetti.
Anche se mi sembra che il capolavoro di questo autore sia Il gabbiano azzurro (ho escluso per mio minore interesse gli
scritti che non partecipano della natura anadiomene delle opere maggiori),
concentro la mia attenzione sul lungo racconto posteriore perché in questo
libro, che sembra respirare un'atmosfera più rarefatta e assorta e procedere
con più lento passo, in realtà confluiscono e convivono tutti i motivi e tutte
le più contraddittorie ipotesi della ricerca di senso perseguita dall'autore
(direi che le contraddizioni esplodono se la metafora questa volta non
contrastasse con l'andamento pacato e il tono sommesso della narrazione).
Alla bipolarità di assoluto e relativo, di casuale e
necessario (se non addirittura di provvidenziale), di reale e immaginario, di
uguale e vario se ne aggiungono tante altre. Quella, per esempio, di felicità e
sofferenza, di bene e male. Appare chiaro che sul piano dell'autentica umanità,
quella particolarmente rappresentata dal personaggio innocente e «curioso»
della bambina, perché il bene sia bene anche il male deve essere male, perché ci
sia la speranza deve esserci la paura («i bambini avevano paura e speranza»; e
«solo i bambini hanno certe paure perché sentono il diavolo»). Una sorta di
diavolo o di infernale Caronte appare con il volto «lanuto e arcano» dello
strano personaggio che ha l'allusivo nome di Nequa.
Solo l'indifferenza è disumana. E una Natura
indifferente e monumentale, di evocazione leopardiana, richiama la figura della
donna, misteriosa portatrice di una fisicità quasi preumana («non sai mai se
cattiva o no»).
Ritorna nel romanzo anche la contrapposizione di informale e geometrico
ed è proprio la bambina a tracciare nel suo gioco, che è poi l'eterna, umana
ricerca della determinazione, quadrati, triangoli, rettangoli, trapezi. Perché
«bisogna stare alle proporzioni», dice l'uomo, per salvare «la misura umana»
costruendo la nave che solca il mare
«illogico» e «indicibile». Ma la logica di quelle geometrie è una logica senza
parole e appartiene alla sfera della concretezza, del fare. La gente, per
costruire la nave, «ha fatto e basta» (Più tardi oltre la concretezza del fare
si affermerà la concretezza dell'essere: «non ha detto fare ma essere»). Le
parole sono felicemente vive quando, anziché dire concetti, si prestano a un
gioco creativo e vagante cui la fantasia
della bambina può felicemente abbandonarsi girando intorno al mistero dell'individuazione («la
nave.., è un tetto, un gatto». A quel libero
volo che si apre alle infinite potenzialità dell'essere evocando
«nuvole», «penne», «uccelli» si oppone, nel libro, lo sterile realismo del vecchio che, con
l'intento di rassicurare, riporta sul piano di una inerte ovvietà: «Saremo
tutti uomini e tutti a posto».
L'aura entro cui si muove lo scrittore Brignetti in
tutti i suoi testi più maturi e più alti (non abbiamo certo stentato a capirlo)
è lontanissima dalle pianure del realismo sulle quali sembravano restare certe
sue narrazioni giovanili. il «vero» che egli persegue non è la piatta e univoca
verità di superficie ma è, secondo una sua enunciazione, «una verità che c'è,
che a volte o una sola volta si vede, ma che forse non giunge a tempo per
tutti. Perché anche quella vera, quella unica, non sembra uguale neppure a se
stessa».
La tensione dinamica di questa ricerca di un oggetto
sfuggente che si conquista - ammesso che ciò sia possibile - solo per approssimazione,
si riflette, naturalmente, nella scrittura. La sospensione resta anche quando
manca, nell'andamento del discorso, ogni concitazione e prevale un animus contemplativo e assorto.
Spesso entrano nel gioco narrativo tempi sfasati e
identità sfocate e divise che cercano vanamente di coincidere (non di rado si
scopre la non coincidenza tra la persona di cui si parla in assenza e la
persona che poi si trova in carne ed ossa). Forse anche per questo, come è
stato notato, Brignetti non è creatore di personaggi e i suoi ritratti sono quasi
informali e astratti. L'individuo tanto cercato forse c'è ma è inafferrabile e
indicibile. Nella Spiaggia d'oro i
personaggi principali sono l'uomo, la bambina, il vecchio, la donna.
A questa astrazione contribuisce anche la scelta
linguistica che elimina ogni denominazione istituzionalizzata della geografia o
della cronaca. Ma noi sappiamo che si tratta di un'astrazione in vista di una
diversa concretezza, quella così prepotentemente espressa dai termini del
dialetto dell'Elba (l'isola mai nominata), che si affacciano qua e là in una
scrittura che si mantiene in complesso a un livello medio-alto. Parole come sciabatticare, spavicchiare, zampicare, puzzore con la loro corposità quasi
aggressiva sono il segno di quella singolarità privata e interiore così carica
di senso profondo e simbolico. L'humus
filosofico e totalizzante (di una filosofia fatta, come sappiamo, di
risposte-non risposte, cioè di aperti paradossi) in cui sono trapiantate quelle
parole evocative e quasi magiche tende (non so se all'intenzione corrisponda
sempre il risultato) a liberarle da ogni esteriore coloritura folklorica e a
sottrarre il plurilinguismo a ogni impressione di pastiche.
Ma a questo punto si aprirebbe un nuovo discorso.
Noemi Paolini Giachery
Il saggio è tratto da
Noemi Paolini Giachery , In cerca
della « pianta uomo», Antonio Stango
Editore, 203 pp.96-104
Nessun commento:
Posta un commento