“La riva
di Charleston” (1960) di R. Brignetti
Recensione di Bartolomeo Di Monaco
Vincitore nel
1967 del premio Viareggio con la raccolta di racconti “Il gabbiano azzurro”
e, nel 1971, del premio Strega con “La spiaggia d’oro”, lo scrittore
toscano, nato nell’Isola del Giglio nel 1921 e morto a Milano nel 1978,
rappresenta un’altra meteora nella memoria degli italiani. In precedenza aveva
scritto, nel 1952, “Morte per acqua”, che segna l’avvio di un percorso
di qualità intriso del suo grande amore per il mare, in ciò affiancandosi ad
altri narratori, come, per stare nei confini della mia terra di Lucchesia,
Lorenzo Viani e Mario Tobino.
Il romanzo che
qui si prende in considerazione non è molto conosciuto, e fu scritto nel 1960,
alcuni anni prima, cioè, di quelli che gli dettero e confermarono la sua
popolarità. È stato ispirato da un fatto realmente accaduto.
Siamo a bordo di
una petroliera, la “Sanguinea”, partita dall’Africa, da Freetown nella
Sierra Leone, e diretta a Charleston, nella Carolina del Sud. L’anno è il 1959,
nel mese di maggio. Da poco vi è salito il giovane ingegnere Ruben Francardi,
29 anni, che, quando conosce il Comandante, lo trova intento a dettare ad un
infermiere, Bracali, lo stato della malattia di un marinaio, il secondo
nostromo. È con questa misteriosa malattia che dovremo fare i conti.
Con lo stesso
ritmo incalzante e piacevole ad un tempo che caratterizzerà qualche anno dopo,
l’avvio di quel gran bel film “La nave dei folli” di Stanley Kramer, del
1965, ispirato all’omonimo romanzo del 1962 di Katharine Anne Porter, Brignetti
ci introduce presso i personaggi che animeranno la storia. Brevi tratti sono sufficienti
a delinearli, giacché l’autore si avvale molto delle atmosfere che crea intorno
ad essi. L’esempio più rappresentativo può essere quello del Comandante,
Ruggero Scerni, quasi sempre colto come fosse lontano da noi e in penombra. Qui
è quando Ruben lo vede per la prima volta: “In realtà, nella penombra,
un’alta figura in piedi, verso la parte anteriore, osservava attraverso i
cristalli tutto ciò che stava accadendo in coperta. Lui fece per ritirarsi.
L’uomo voltò appena lo sguardo e lo vide: non disse una parola, però.”
Le stesse penombre di Conrad.
Ruben viene
quasi sempre indicato come “il giovane”. Le sue curiosità sono lo
strumento con cui l’autore ci fa conoscere la nave e i personaggi. Ne esce
tratteggiato un ambiente chiuso, intimo e familiare, in cui di volta in volta
vengono appena illuminate cose e persone, mentre le altre restano nell’ombra: “sempre
si era creata, ad ogni minima quantità di cammino, questa distinzione tra
l’esistenza a bordo e l’acqua senza cronaca umana.” Anche il secondo
nostromo, quello ammalato, Iginio Santovito, che ancora Ruben non ha visto,
comincia ad incombere con i chiaroscuri di una malattia di cui il protagonista
non riesce a sapere niente. Domanda al cameriere Alessandro di quale malattia
si tratti, e questi risponde: “Cosa vuole: io non ne so niente”. Annota
Brignetti che Ruben: “Si rese conto che quell’uomo aveva un modo di guardare
non più penetrante come prima: uno sguardo in cui non si può appoggiare il
proprio.”
Che è una bella
espressione per significare di una atmosfera tra tenebrosa, arcana e
inquietante che già avvolge la nave. Alla quale segue quest’altra: “La
petroliera sembrava non avvertire neanche la luce; tutto era normale, uguale;
si agitò rollando dolcemente, con movimenti lisci come se si stirasse nel
mare.” E ancora: “nella grande stanza era subentrato un momento di
attesa senza nulla dentro.”
L’autore affida
ad espressioni come queste il segno di una spiritualità e di una presenza che
vanno oltre le forze dell’uomo e che sempre incombono, non allontanandosene
mai.
La prosa,
quieta, sorvegliata, quasi silenziosa, riesce ad aprire spazi anch’essi
animantisi al di là dell’uomo. C’è una suggestiva commistione tra il mistero,
la presenza del mare e queste ombre che si muovono in dimensioni sconosciute e
tuttavia percepibili e intuite: “Il mare scivolava intorno al metallo e
pareva di assistere davvero al passaggio del tempo: un fatto mobile da vicino e
relativamente alla nave, ma fermo e indiviso tutt’intorno, fino ad oltre la
percezione umana.”
Quando,
all’improvviso, l’allievo ufficiale confida di avere un forte dolore alla testa
si crea intorno ai personaggi silenzio e paura. Infatti, sono gli stessi
sintomi presentati dalla malattia che ha colpito il secondo nostromo, che ora
apparentemente sta meglio. Dirottare la petroliera verso il porto più vicino
per consultare un medico non è possibile, giacché pare non si tratti di cosa
grave, e solo una grave malattia può consentire il dirottamento. Tuttavia
inizia a insinuarsi un’inquietudine sottile, pericolosa.
Gli stessi
pensieri che cominciano a circolare nella mente di Ruben sono attratti da una
arcana atmosfera. Una notte, sul ponte della nave, confida all’amico Andrea
Badalassi, primo ufficiale, intento ad osservare il cielo con il sestante: “Non
sappiamo come sarà una futura e prossima vita.” E poco prima gli aveva
domandato: “Di’, credi che il mondo diverrà disumano, un giorno?”
Brignetti,
attraverso il viaggio della petroliera, ha inteso intraprendere un percorso ben
più arduo che concerne il mistero della vita, i travagli, le speranze, i
turbamenti, le paure di cui è disseminata la nostra esistenza. I silenzi, i
lenti movimenti, il rumore – quasi un sospiro – delle onde, non appartengono
solo a questa nave piccola e sperduta nell’immensità dell’oceano, ma sono le
incertezze e le inquietudini anche della nostra vita: “Le acque ancora buie
scorrevano sempre nuove lungo la petroliera, e le creste di schiuma
s’infrangevano; quindi il loro battito andava perduto nella notte.”
Allorché il
secondo nostromo muore, senza che se ne sappia ancora la causa, queste sono le
considerazioni che la sua morte ispira: “Nella testa di quell’uomo, lì,
steso, da non sapere che farne, c’erano pure state le nozioni del mestiere. E
non era un mestiere facile; specialmente in tutto il periodo del passaggio fra
la marina a vela, quella dei vapori a carbone e quella delle grandi navi
lucenti come la petroliera. Ne doveva aver preso di vento, di gelo, di sole,
quella faccia che neanche adesso si era scolorita. Nella mente ormai distrutta
di quell’uomo dovevano aver abitato per molto tempo delle idee.”; E poi: “La
morte covava in un perimetro di lamiere anche grande, ma limitato; e gli uomini
l’avvertivano, ne soffrivano la potenza misteriosa.”
È una morte che
genera sospetti. Il direttore di macchina, Evaristo Frangioni, non ha peli
sulla lingua: il cambusiere e il comandante hanno fatto la cresta sui viveri.
Viene in mente “Gli ammutinati del Bounty” di Jules Verne, anch’esso
basato su di un fatto realmente accaduto il 29 aprile 1789.
La scrittura di
Brignetti è come un fascio di luce in movimento che trae dall’ombra tutti i
particolari, i quali grazie ad essa si accendono per un istante prima di
tornare nell’oscurità: “La luce azzurra lo aveva sbalzato dall’oscurità
dell’ambiente”. Il periodare succinto, sempre preciso anche quando mette
allo scoperto gli stati d’animo, imprime un movimento breve e rapido a
illuminare il buio. Un esempio può essere dato dalla preparazione della
sepoltura in mare del marinaio morto, che si legge nel capitolo X.
Non è un romanzo
facile a scriversi proprio per il sezionamento minuzioso del tempo e del
movimento. Un lettore scrupoloso non potrà che godere di un tale meccanismo che
richiede precipue doti di narratore.
Il sospetto che
il secondo nostromo potrebbe essere morto a causa della cattiva qualità del
cibo si diffonde rapidamente e crea scompiglio. Galli, il terzo ufficiale, un
viareggino, è costretto ad indagare, ma il direttore di macchina non ha mandato
giù che il comandante si sia frettolosamente liberato del corpo del morto,
seppellendolo in mare, così che dubita che “una funesta condizione
sussistesse ancora nell’interno della nave.” e lo dice apertamente. Per
tentare di dissuaderlo il cambusiere, Alvaro, getta là il dubbio che la
malattia possa essere stata causata anche dall’acqua di cui ha la
responsabilità proprio il direttore di macchina. Brignetti sta creando il clima
preparatorio e di suspense senza fretta ma con una direzione precisa. Ecco
ricomparire infatti quell’allievo ufficiale, Bruschi, che aveva denunciato
forti dolori alla nuca. Non sa ancora che il secondo nostromo è morto. Lo
tengono all’oscuro degli avvenimenti, come se fosse un ragazzino. Vuole sapere
da Ruben ciò che sta accadendo sulla nave. È diventato di una magrezza
impressionante. È turbato, impaurito. Lo ferma, lo tiene per un braccio, non
abbandonando mai, però, la porta della sua cabina.
Ai frequenti
dialoghi tra Ruben e il primo ufficiale Andrea, suo vecchio compagno di studi,
Brignetti affida via via alcune considerazioni critiche tanto sulle regole che
vigono a bordo di una nave quanto sulla società in cui ci si trova a vivere.
Sono presenti spunti anche esistenziali che ci interrogano sullo scopo della
nostra vita e sulle difficoltà e gli adattamenti da superare per ciascuno di
noi. Essi si inseriscono, mai pedantemente, nel ritmo della storia, anzi le
offrono una calibratura che aiuta a collocare la nave nella universale,
ordinaria ma sempre misteriosa, concatenazione degli eventi: “ In se stessa,
però, la nave è tale e quale dappertutto. [...] Una storia vale l’altra.” E
ancora (è sempre il primo ufficiale a parlare): “La perfezione umana c’è
quando ciascuno è un uomo autentico. Il vuoto, la monotonia e le nostalgie sono
aspetti secondari. [...] Ma che altro credi che sia la vita? [...] La vita non
va cercata al di fuori di quello che è.”
Ma non solo con
lui. Ruben affronta spesso dialoghi di questo tipo. Quando parla con il
direttore di macchina, questi dice, ad un certo punto: “una guerra fa più
danno nello spirito che nelle cose. È in questa pazzia che un paese o l’altro
muore. E dopo per ricostruirlo i mattoni non sono tutto: diventa un paese
incenerito.” Da tali dialoghi emerge il pessimismo dell’autore sulle sorti
della società e sulle qualità degli uomini. Ruben non riesce mai a contrastare
del tutto le opinioni di chi non riesce a vedere del buono intorno a sé. Avremo
altre occasioni: “La creatura dell’uomo ha superato l’uomo.”; “L’abitudine a
prepararsi unghie sempre nuove, per non parlare delle bombe atomiche e delle
navi spaziali, ha ormai conquistato i paesi e gli uomini singoli. Siamo
perduti.”
La protesta dei
marinai, ora che, dopo l’allievo ufficiale, anche il cameriere di bordo ha
presentato gli stessi sintomi della malattia che ha causato la morte del
secondo nostromo, sta montando. Si rifiutano di consumare la colazione del
mattino: “sospettavano della qualità dei cibi contenuti nella cambusa:
secondo la loro opinione era questa la causa della malattia sulla petroliera.”
Le rassicurazioni rivolte loro dagli ufficiali non servono a niente. Il
cambusiere tenta inutilmente di avere un incontro con il comandante; sosta di
fronte alla sua cabina, ma invano: “in tutta la serata non riuscì ad
avvicinare il comandante, che rimase oltre la porta chiusa.” Il direttore
di macchina lo tiene sott’occhio, e pensa che qualcosa lo inquieti. Un senso di
colpa? Sospetta, infatti, e ancora più di prima, una tresca tra lui e il
comandante.
Siccome i
marinai si rifiutano di mangiare, si rifiutano anche di lavorare. La situazione
sta scivolando verso il peggio, senza tuttavia che ancora si levino il clamore
e il dramma della rivolta, che si percepisce però nell’aria. La parola
ammutinamento viene pronunciata per la prima volta dal secondo ufficiale,
quando spiega al nostromo che è meglio che il comandante, che sa ciò che sta
succedendo, se ne resti in cabina, giacché, rifiutandosi i marinai di lavorare,
non potrebbe fare altro che constatare un ammutinamento, con le relative gravi
conseguenze.
Il direttore di
macchina resta della sua opinione: il comandante si è chiuso nel silenzio
perché “Dovrebbe chiarire tante cose…”; “è quello che tiene la cassa di
bordo, quanto ai viveri.”
I sei negri
dell’equipaggio – quasi un piccolo speciale occhio di osservazione (“Erano
fissi a quello che succedeva, ma come da un’altra nave”) - si accorgono per
primi della presenza del comandante. È salito sul ponte, silenzioso e guarda i
marinai che si sono decisi a mangiare: “aspettava, forse, prima di parlare,
la fine del loro pasto.”
Il cambusiere
intervenendo per convincere anche gli altri a mangiare, scatena la reazione.
Questi ultimi gli gettano contro gamelle, piatti, bicchieri, posate, fiaschi;
allora il comandante scompare per riapparire di lì a poco con una rivoltella in
mano: “Sparò in aria. Immediatamente si riebbe sulla nave il silenzio.”
Il suo discorso ai marinai è breve e deciso. Esige rispetto, usa clemenza,
salvo che nei confronti del direttore di macchina, punito con gli arresti. Così
tutto sembra tornare alla normalità.
Brignetti sa
usare i tempi della suspense, ci offre assaggi intervallati sapientemente, tali
da non alleggerire mai quell’atmosfera di attesa tragica che ormai ha avvinto
il lettore. È il momento ora in cui il romanzo ci stringe in una morsa
irreversibile: raro anche in un giallista esperto destreggiarsi a questo modo.
A distanza di poche ore, infatti, uno dei passeggeri, la signora inglese, muore
della stessa malattia, “senza che se ne sapesse nulla”, e il comandante,
“l’uomo supremo”, ha deciso di gettarla in mare, come è avvenuto per il
secondo nostromo, e questa volta senza chiedere il parere di nessuno. Drew, uno
dei marinai negri, ha la febbre e presenta gli stessi sintomi degli altri.
Inevitabile domandarsi: e ora che cosa succederà? Mancano solo due giorni alla
fine del viaggio, all’arrivo, ossia, nel porto di Charleston, che ormai
rappresenta la salvezza della nave e la fine di ogni angoscia. Ancora il
direttore di macchina insinua: “il comandante ha una gran fretta di
sbarazzarsi delle persone che muoiono a bordo.”
È una storia in
cui l’impossibilità, l’impotenza e la delusione la fanno da padroni. Un destino
di sventura accompagna il viaggio della nave sin dalla sua partenza: “essa
procedeva e trasportava un’umanità che viveva e intanto corrompeva di morte il
cammino.” Essa è diventata ormai quel segmento della vita che appartiene
anche a noi: “È come se questa nave contenesse le radici dell’esistenza,
anzi, ne fosse lo specchio.”, dirà Ruben.
C’è un momento
in cui, capeggiati i marinai dal secondo ufficiale, Perego, sembra che la
tensione salga avvicinandosi all’esplosione: allorché sta per essere seppellita
in mare la donna inglese Trudy Drayton Willis. Il marito (figura solitaria di
tutto rilievo) e la figlia Mary guardano in silenzio lo svolgersi della
cerimonia, l’equipaggio manda a dire al comandante, per voce del secondo
ufficiale (che ha un passato di paura proprio come Lord Jim), che non vuole che
la donna sia sepolta in mare, sibbene condotta a Charleston. Ma quando arriva
il comandante si fa un silenzio assoluto. Ancora una volta i suoi gesti
risoluti e le sue imperiose parole spezzano ogni resistenza. È una figura
gelida, ligia al dovere, così sembra. Brignetti dosa la presenza fisica del
comandante con un’abile parsimonia, in modo tale che la sua figura in realtà
incomba sulla nave e il lettore l’avverta marcatamente. Ne nasce una sorta di
sfida tra il comandante e l’equipaggio, che a poco a poco consolida la
struttura del romanzo, indirizzando i primitivi silenzi della nave, la sua
solitudine nell’immensità dell’oceano (“una solitaria, mitica focena”),
verso un conflitto duro e spietato tra uomini.
Dirà il
marconista: “La salvezza, se c’è, è qui a bordo e dentro la gente. [...] è
nella stessa nave e negli stessi uomini precisamente come la malattia.”
Dell’acutezza
psicologica dell’autore, della sua capacità introspettiva, della raffinatezza
dell’osservazione, si può citare ad esempio una frase semplice e profonda come
questa: “Si può a lungo disseminare lo sguardo fra i movimenti dell’acqua;
come in quelli della fiamma: sono spettacoli che non si esauriscono mai.”
Come pure la presenza
a bordo del comandante e quella della misteriosa malattia che colpisce
all’improvviso chiunque, hanno un’intersecazione nascosta, avvertita ma
imprecisabile, che contribuisce a creare un’atmosfera inquieta dai molti
significati. Taciturno, misterioso e inesorabile il comandante, al pari della
stessa malattia. Come si vedrà, finiranno per coincidere. Le difficoltà e i
punti interrogativi irrisolti dell’esistenza umana sono posti ancora una volta
al centro del romanzo: “voleva dire sentirsi esposti nel buio a qualcosa che
si avvicinava, e non si poteva vedere, non si poteva sentire in tempo, non si
poteva respingere, non si poteva fuggire: star lì ed essere presi ad un
tratto.” Un male sconosciuto (“uno spettro ammonitore e molteplice tocca
le spalle dei vivi.”), che sfugge agli uomini allo stesso modo in cui
sfugge loro la vita. Ci pare di individuare, alla fine, che qualcosa anche del
grande Edgard Allan Poe si aggiri tra le penombre della nave.
Alcuni oggetti
ricorrenti paiono essere stati dotati dall’autore di un potere virtuoso, quasi
scaramantico: lo straccio del direttore di macchina, l’olio usato dal nostromo
per lustrare la nave, il sestante, lo strumento impiegato dagli ufficiali per
individuare, guardando il cielo, il punto-nave, ad esempio. A ben vedere, essi
hanno un valore intrinseco ben superiore a quanto appare.
Giunti a
Charleston, i medici individueranno la causa della malattia, vecchia quanto
l’uomo. Essa era penetrata nella nave, l’aveva attraversata, aveva mietuto le
sue vittime, aveva sparsi a piene mani la paura, il dolore, il sospetto, l’ira,
trasformandola presto in un segmento della vita e del mondo.
Bartolomeo Di
Monaco
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