Luigi Cignoni scrisse L’isola del diavolo ( Livorno, Editrice La Nuova Fortezza,
1989) dopo aver insegnato dal 1979 al
1981 nella scuola media di Pianosa ai figli degli agenti di custodia e degli
abitanti dell’isola. Quanto ci sia di autobiografico e quanto di fantasia in un romanzo lo sa solo l’autore, tuttavia in
questo brano nel prof. Retio Guelfi, preside della scuola media di Marina di
Campo da cui dipendeva la sezione di Pianosa, è ben riconoscibile il compianto Prof. Aulo Gasparri che a quanto pare
apprezzò la descrizione dato che pubblicò il pezzo che lo riguardava nella
rivista Lo scoglio dell’estate del 1991
assieme a sua fotografia:
Di buon'ora ero a Marina di Campo davanti al Preside della scuola media, dal quale dipendeva
anche la sezione staccata di Pianosa.
Cinquant'anni, capelli bianchissimi pettinati all'indietro,
magro, mi si fece incontro porgendomi la mano e mi invitò a accomodarmi in
ufficio. Era una piccola stanza con un grande finestrone che dava nel cortile
interno del palazzo. La stanza era ingombra di cartelle, filze, fascicoli, vocabolari,
libri, oggetti di laboratorio di scienze, fogli protocollo chiusi da fascette
abbandonati sulla poltrona, armadi a vetri aperti. «Non faccia caso al
disordine» mi disse il prof. Retio Guelfi, «ma stiamo facendo l'inventario.
Liberi una sedia e si accomodi qui vicino alla scrivania». Si sedette. Assunse
l'aria che gli competeva. Volle sapere dove mi ero laureato, in cosa, i miei
studi, il mio curricolo, perché mi ero presentato così in ritardo. A ogni risposta
muoveva in modo assertivo la testa che stava leggermente inclinata. Quando
parlava, non poteva fare a meno di atteggiare le labbra piccole e sottili a una
smorfia che poteva apparire un sorriso rimasto a metà. Due occhietti vispi si
posavano a intermittenza su di me e mi sentivo soppesato, valutato. Mi accorgevo
che voleva sapere qualcosa di più, sempre di più e che io non avevo ancora
detto, ma allo stesso tempo la risposta doveva uscire spontaneamente, per via
indiretta.
Indossavo
l'eschimo verde che mi ero portato da Firenze, ci stavo bene dentro; mi teneva
caldo, ma era anche l'uniforme degli studenti degli anni '70, quelli che
avevano scosso le vecchie ideologie e che avevano avuto l'ardire di contestare.
Risposi che ero elbano e questo, per un po', soddisfece la sua bramosia. Si parlò
di come era organizzata la scuola a Pianosa, da quanti ragazzi era composta e
di che cosa dovevo occuparmi. «Lei prenderà servizio domani stesso. Salirà a
Piombino. All'imbarcadero dei traghetti un aliscafo attracca attorno alle ore 9
e 10 circa; lei s'imbarcherà e alle undici sarà all'Isola. Io intanto telefono
alla direzione della Casa di Reclusione per annunciare il suo arrivo. Troverà
laggiù un'altra insegnante, con lei si metterà d'accordo per l'orario. Appena
l'avrete stilato mi telefoni che dovrò comunicarlo a Livorno». Si mise davanti
poi un grosso libro che cominciò a consultare. Teneva la matita nella mano
destra pronta a sottolineare le parole che riteneva opportuno mettere in
rilievo. Quando si imbatteva in un passo importante, lasciava sulla pagina un
segno, afferrava la biro e vergava appunti. «Con sei ragazzi in tutto lei non
farà 18 ore di cattedra, bensì dovrà insegnare pure francese, storia della
musica oltre alle materie letterarie, mentre il resto delle discipline toccherà
alla sua collega di materie scientifiche, perché, vede, la legge parla chiaro,
non ci sono dubbi di cattiva interpretazione» e mi elencava a giaculatorie i
punti che aveva letto e riletto. Con la sfera mi andava abbozzando un'ipotesi di orario per farmi capire qualcosa. Avevo già
effettuato delle supplenze al mio paese, non ero completamente digiuno di
didattica, sicché riuscivo piuttosto bene a seguirlo nei girigogoli sul
taccuino. Dopo circa un'ora mi chiese se avessi tutto chiaro. «Mi raccomando —
dato che aveva ricevuto da me garanzie su quanto mi aveva appena finito di
spiegare — porti con sé un documento. Sul battello non pagherà biglietto;
quando arriverà a Pianosa le chiederanno chi è. Lei dia la carta d'identità o
la patente con la lettera che la segretaria le consegnerà. Efisiaaaa...!» gridò
all'improvviso verso la porta. «È pronta — chiese — la lettera che avevo detto
di preparare?» «La sto finendo signor Preside», rispose una voce femminile. Mi
voltai da dove veniva la voce. Mentre compivo la rotazione sul busto, scorsi in
un angolo, tra uno scaffale e l'altro la bandiera italiana che pendeva indolente
da un'asta ficcata in un cippo di granito a mo' di piedistallo. Poco discosto
delle coppe di diversa misura, impolverate, confuse, alcune con qualche intaccatura.
Alle pareti dei disegni di ragazzi; su uno di essi era scritto a caratteri grossi:
«Classe III, sez. A». Entrò finalmente la segretaria, marcando il passo con i
tacchi delle scarpe; si avvicinava piuttosto decisa. Le voltavo le spalle, ma
sentivo che la sua meta era la scrivania del Preside. «Ecco, ho preparato anche
la busta» aggiunse per farsi perdonare di non averla scritta prima. Appoggiò
con grazia sulla cartellina di cuoio il foglio con tanto di intestazione. Il
professore inforcò gli occhiali; centellinò le parole con la penna a sfera
sospesa a un millimetro dalla carta; quando ebbe finito la firmò; la piegò; la
infilò nella busta. Passò quindi la lingua sul mastice e finalmente la chiuse.
Dopodiché me la porse. Era indirizzata al maresciallo degli agenti di custodia.
«Buon lavoro, professore. Se ci sono problemi non ha che da telefonarmi». Mi
strinse la mano e mi accompagnò alla porta. Salutai e discesi per andare in
cortile verso la macchina. Ero pronto per Pianosa.
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