Elba isola di poeti e narratori

Elba isola di poeti e narratori è un'antologia, ma non un' antologia critica perché non sono una critica, né desidero esserlo. E' il percorso di una lettrice che ha con la parola scritta un rapporto emotivo, empatico, emozionale e non intellettuale, che tenterà di dare uno sguardo sugli scrittori elbani e sull’Elba nella letteratura.

domenica 27 ottobre 2013

RIO MARINA : il mio borgo di Luigi Berti

foto di Dante Leonardi


RIO MARINA : il mio borgo di Luigi Berti

Io amo i monti ferrigni della mia terra. È una cattiva abitudine di quando fanciullo vi andavo a far le sassate e, per mulattiere e sentieri, in cerca di nidi e lucertole.
È una debolezza ch'è rimasta nella mia giovinezza adusta come un'acqua liscia che fa pensare alla dolcezza di un bagno.
È una leggerezza che mi vi spinge talvolta ad ascoltare il silenzio e la quiete larga delle cose e dell'ora.
 Ma, caro signore, nulla è più dolce di quei miei ritorni. Di là passano incessanti i ricordi di tempi lontani nell'immaginazione e nell'ansia. Ivi le cose esalano adagio la loro anima antica con la taciturna tristizia dei morenti. Hanno le mani stellate di piccole ferite, le cose, ma in quell'aria quasi spirituale, tra quelle rocce iridanti gocce d'umori nascoste a piante disseminate per muriccioli rupestri, ritrovo la mia adolescenza perduta e mi metto a germinar fragranze in quella luce purificata e distillata dai successivi trapassi.
 L'anima è il corpo ne godono, Signore.
Parto di buon mattino, salgo alle cime col respiro saltante, venero le scaturigini montanine, le acque fresche di polla, mi smarrisco per i campi di felci verso il pennacchio di fumo che una carbonaia eleva nella macchia e salgo e salgo all'ignoto godendo con orgoglio della stanchezza del corpo, col presentimento di un praterello verde succhiante la rugiada come una pappa mattutina, così ben curato che fa pena a guastarlo o qualche gruppo folto di lecci che fanno come un tempio di freschezza odorata di fogliame e di terra uliginosa e che compaiono in cima ad un colle, divinamente.

Lassù, la sfera del sole è attenuata dentro finestrelle di rami, soffitti larghi a travature di foglie ed il cuore ci dorme bene, tanto bene che non ha voglia di destarsi.
Gli occhi riposano sui monti.
( Campane di monti attorno,
 per mano, con ogni giorno
 blocchi di cielo nuovo
ed un diverso rintocco di colori
e d'armonie gioconde.)
I nomi di questi monti li so. Vi serpeggiano valli che conosco, casolari appuntellati fra scogli, abbarbicati fra il giallame selvaggio delle erbe e dei rovi; dal cuore sopito, fuori del mondo.
Tutta la vita, caro signore, ha una bellezza, la quale dona alle cose un significato costante.
E dolce è rimaner li, disteso come in un letto e non saper da quanto tempo, a guardar il sole, a seguire i
viaggi delle nuvole, i tremiti delle foglie e gli inchini delle erbe, a sentir sonar campane dalle chiese perdute dei borghi.
Ed il ritorno, a sera, rinnova i prodigi e l'ombre sul cuore.
Rifare la strada al borgo. Ci si sente raffinato, signore, agile arioso. Il vostro sguardo alla vita è limpido.
Ed il mio borgo è là, sul mare, come se ne vedono nelle vecchie oleografie: case stinte, sconquassate, dondolanti in file, prostrate fino a terra con gemiti di calcinacci.
Oleografie dalle case sempre in lotta col tempo che le offende, dai lastricati sconnessi e disuguali con nel fondo un poco di carne umana: un pescatore che dondola agli strappi furiosi dei cavalli del mare la barca antidiluviana.
Ma quel borgo non è di pescatori chè i suoi uomini vellosi e sudaticci, corrono i mari o sconquassano il molliccio lubrico delle miniere di ferro. Quella striscia di terra e di case quella massa informe che guata di traverso venendoci incontro e stilla per ogni dove tra opacità di metalli arroncigliati alla confusa il petroso ventre della terra. Osservate signore, somiglia ai cormorani difformi che gli artisti del Secolo sedici face-vano sfondo per i loro santi spolpati; paesi di varietà cromatica ma senza toni intemperanti, pieni di forza nella finezza delle linee gelide, senza chiaroscuri e così lontani dal reale.
 Poi le miniere; come acroteri adespoti, come rettangoli gemmati di roccie gialle e di scogli ingommati nel sangue del ferro, bistorti, di sbieco, come minuterie di incisivi spezzati. Monti tutto colore, imponenti come visi truci, rialzati fra un odore di sangue ed un tentennio di cristalli: è la campagna senese negli affreschi di Luca Signorelli e di Antonio Razzi, della leggenda di S. Benedetto.
Di là, osservi, di là l'atmosfera si acqueta in un'operosità metodica, qualche voce nuova laggiù, le nacchere dei colori che sbalzano a sprazzi nello stridore della terra rovistata, tirata, strascicata, che sfogliano per proprio conto guizzi fuggevoli di verde anemico, smorti di costa in costa, di filare, in filare, sui muriccioli dinoccolati dalle agavi puntate e chiomate di giallo; siepi di verde bile che sbisciano via strangolate da mani unghiate di rosso bucchero, di spinello, di gridellino, indolenzite da alternative di vigneti esitanti colate di pampini e di grappoli; colate di vino, di ferro, di sole.
Poi... le scatole stantie di muffa e di muschi del borgo. La case accatastate per non cadere, alte senza forma, incupite e sgretolate.
 Infine la torre che serpe la sua ombra sul mare, rabbuffata da un orologio che sbieca le mura quadrate come un occhio inumidito.

( Tratto da Lo Scoglio,  III trimestre - Anno V - autunno 1987, n. 15 pp13-14)
 

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