Elba isola di poeti e narratori

Elba isola di poeti e narratori è un'antologia, ma non un' antologia critica perché non sono una critica, né desidero esserlo. E' il percorso di una lettrice che ha con la parola scritta un rapporto emotivo, empatico, emozionale e non intellettuale, che tenterà di dare uno sguardo sugli scrittori elbani e sull’Elba nella letteratura.

sabato 13 luglio 2013

Manrico Murzi : intervista di Liliana Porro Andriuoli



L’intervista è tratta da LETTERA in VERSI, una newsletter di poesia, a carattere monografico, nata da un’idea di Margherita Faustini e Rosa Elisa Giangoia, che ne cura la realizzazione con la collaborazione di Liliana Porro Andriuoli. Il n. 46 del giugno 2013 di Lettera in Versi è dedicata a Manrico Murzi.


Manrico Murzi con Marguerite Yourcenar  
Manrico Murzi : intervista di  Liliana Porro Andriuoli
Hai iniziato la tua attività letteraria, come poeta, pubblicando nel 1964 per i tipi dell’editore Rebellato di Padova una raccolta di versi dal titolo Il cielo è caduto. Quali sono state le sollecitazioni che hanno fatto nascere in te la vocazione per la poesia? Quanto ha influito su questa tua vocazione l’incontro con Giuseppe Ungaretti? E cosa ha significato per te, ancora studente, tale incontro?


Si può dire che sono nato e cresciuto su una spiaggia di sassi: ho appreso ritmi e cadenze dalla battigia del mare, che è un grande maestro. Scrivere, sin da quando ero un ragazzino, da subito è stato un far aggallare pensieri e sentimenti creando musica: tutto veniva e viene da un misterioso angolo dell’interiorità, una specie di officina dove, all’insaputa del poeta, nascono e crescono i versi poetici. Prima o dopo viene per loro il momento di apparire sulla carta, e in questo li aiuta lo scrivano, che agisce sotto dettatura di un personaggio occulto: occorre essere bravi artigiani della parola per non tradire il dettato. Il cielo è caduto è frutto del mio periodo giovanile, è raccolta di quel che ho scritto da ragazzo, giacché chiamato e sollecitato a farlo per un impulso insopprimibile che ancora parte da dentro. Il mistero ha bisogno di farsi sentire e mi ha trovato e mi trova suo strumento adatto.
L’incontro con il poeta de Il porto sepolto, che poi ho frequentato per otto anni, è stato come accostarsi a una sorgente di suoni che somigliavano a quelli di un mare interno mai in pace. Insegnante di libertà e vagabondaggio, nelle passeggiate per le vie di Roma ci si smarriva, ché le strade erano fatte non più di sasso, bensì di vibrazione e di immaginazione. Perdevamo la bussola, si arrivava in ritardo o semplicemente non si arrivava a casa sua o a un qualche appuntamento. Come me era figlio di un fornaio, e ciò mi rendeva a lui vicino. Certo, trovai il coraggio e gli feci leggere i momenti: così mi incoraggiò alla loro pubblicazione. La sillabazione appresa dalla voce dei muezzin, nella sua Alessandria, lo assaliva talvolta per strada o sul tranvai, e arrotolava le parole nel suo gargarozzo, le strizzava come panni bagnati facendone uscire suoni antichi e inquietanti: restavo in silenzio, allora, e pensavo alla mia spiaggia. Ecco, tenere in bocca le parole come chicchi, sassi di una battigia, è ancora esercizio, da lui ereditato, e che spesso pratico.
Oltre che poesia hai scritto anche alcuni racconti come Occhi di polpo e Interferenze, mentre per il teatro hai pubblicato anni addietro Discorso con la luce e Pollice: quale significato hanno avuto per te queste esperienze nel campo della narrativa e della drammaturgia?

I miei racconti, usciti su alcune riviste letterarie, sono pochi e hanno tessuto poetico e stile essenziale.
I drammi che ho scritto sono il tentativo di cimentarsi con il dialogo vissuto nelle caffetterie del Medio Oriente, e praticato dall’egiziano Tawfik al-Hakim, che ha dato vita, nel mondo arabo, al teatro moderno oltre che al giornalismo e alla saggistica. Ho avuto modo di incontrare questo padre della letteratura araba, un vero saggio e un gigante di semplicità di stile e profondità di pensiero, purtroppo poco noto ai nostri letterati e al nostro pubblico. Il dente di Ippia è il dramma che piacque alla mia amica Yourcenar, e al quale, se Dio mi dà tempo, lavorerò presto. Il significato di queste esperienze: fare della parola il vero attore sulla scena.
Hai inoltre svolto negli anni un’intensa attività di traduttore, che va da I doni di Alcippe di Marguerite Yourcenar (Bompiani, 1987) a Il Rione dei Ragazzi di Nagib Mahfuz (Marietti, 1991); da Manto Nero di Brian Moore (Piemme, 1992) a El Cid (Genova, ECIG, 1993) di Monique Baile; ecc. Quale è stato il tuo rapporto con questi testi e con i relativi autori?
Con Marguerite Yourcenar ho avuto un rapporto di amicizia intenso. Con Lei ho girato l’Egitto e la Grecia, viaggiando anche per mare, e sono stato suo ospite nell’isola di Mount Desert, non lontano da Boston. Amava il mio linguaggio poetico: una mattina mi chiamò nel suo giardino, dove stava scrivendo, e mi chiese di mettere in italiano la sua poesia: ne restai emozionato, visto che era donna molto scrupolosa e difficile nelle sue scelte. Presto uscirà il racconto di questa mia amicizia, corredato da lettere e foto, scritto da Donata Feroldi. I suoi versi mi hanno impegnato molto, per essere all’altezza del personaggio.
Il capolavoro proibito del Nobel egiziano (il racconto della vita di Maometto non è gradito agli Islamisti) mi ha tenuto occupato parecchi mesi, siccome, non essendo ancora pubblicato come libro, ho dovuto tradurlo da 114 copie del quotidiano “Ah Ahram” (“Le piramidi”), conservate in un sottoscala della redazione del giornale: 114 capitoli quante sono le Sure del Corano. Ho trascorso molto tempo a fianco dell’autore, cordiale amico, affinché verificasse la mia traduzione: spesso in qualche caffetteria di Alexandria, isolati e protetti da poliziotti. Appena la Marietti pubblicò il romanzo, Mahfuz ed io fummo condannati a morte dagli Ulema dell’Università islamica Al-Azhar del Cairo: lui con una fatwa (fu accoltellato nell’ottobre del 1994, ma sopravvisse) io con un decreto contro un infedele e una pena eseguibile in territorio egiziano. E però ho sempre creduto che il valore del messaggio, che tanto mi ha entusiasmato, avesse più importanza della mia vita: il difficile rapporto della Divinità con gli uomini promuoveva l’armonia fra i discendenti di uno stesso Padre, come sono gli ebrei, i musulmani e i cristiani.
Manto Nero, ripubblicato da poco con il titolo Fuochi morenti, mi ha affascinato per la spiritualità degli indiani, considerati selvaggi, più alta di quella predicata dai Gesuiti attivi nelle missioni canadesi.
El Cid mi ha procurato l’occasione di usare un linguaggio che producesse poesia per un testo che cantava le gesta di un eroe, e rievocava nello stesso tempo la complicata vicinanza, in quel momento storico, delle varie componenti culturali e religiose del tessuto spagnolo: appunto musulmane, cristiane e ebree. Altre traduzioni riguardano testi storici, come La guerra dei trent’anni del Pagès o saggi relativi all’esoterismo o alla letteratura intorno alla vita di Gesù, argomenti cui sono interessato.
Come Commissario di bordo hai viaggiato a lungo, toccando approdi in varie parti del mondo; in che misura la tua professione ha influito sulla tua attività letteraria? E qual è stato in particolare il tuo rapporto con il mare?
Un proverbio arabo dice che un uomo è tanti uomini quante sono le lingue che conosce. Abbandonata l’accademia e l’insegnamento, ho potuto accrescere la mia conoscenza di varie lingue, in modo da avere un rapporto stretto con i suoni dei popoli che avvicinavo, con la loro poesia e la loro cultura. L’arabo e il greco moderno, in particolare, mi hanno permesso di arricchirmi e di incontrare e frequentare poeti, scrittori e artisti del mondo arabo e della Grecia: il poeta Adonis, il già nominato Tawfik al-Hakim, Mahfuz e tanti altri, specie nel Libano, e basti nominare Amin Maalouf; oppure Elitis, altro premio Nobel, e Cavadias, Ritzos … e i maggiori artisti e cantanti della Grecia, dove i testi delle canzoni sono le poesie di grandi autori che in tal modo diventano popolari. La mia posizione a bordo mi permetteva di lasciare la nave e indagare tra le rovine dei siti archeologici, visitare i musei, girare per i mercati, partecipare alla vita quotidiana o agli svaghi delle taverne e dei teatri.
Nell’ambito della poesia russa del ‘900, quale significato assume per te l’opera di Ossip Mandelstam, del quale hai tradotto tutti i libri di versi?
Il mio approccio con la cultura e la lingua russa è dovuto alla mia totale avversione contro i tiranni. Stalin ha martoriato e soppresso artisti, scrittori e poeti, tra i quali spicca la figura di Ossip. Sento grande sofferenza quando penso a lui come “Parola poetica”, creatrice di immagini e metafore meravigliose, amante della vita e del canto, e allo spietato barbaro che l’ha schiacciata come fa un piede con un insetto. Tremendo! Ecco perché ho sostenuto la fatica di tradurlo da una lingua che ho dovuto studiare e apprendere a tale scopo.
Come si inserisce nel contesto della tua produzione complessiva un libro quale Si va a simboli, un romanzo in cui la prosa è strettamente legata alla poesia?
Un libro che avrebbe bisogno di essere meglio conosciuto. Nello scriverlo, di certo ho pensato a Dante, in particolare alla Vita Nuova, ma anche a un itinerario dove re-incontravo persone a me amiche e care, quali l’autore de Il Gabbiano Azzurro, Raffaello Brignetti, mio conterraneo, quello che mi portò da Ungaretti; e Ungaretti stesso, il mio maestro; e Dylan Thomas, il poeta gallese con il quale ho viaggiato in Sicilia; lo scultore Edoardo Alfieri; il pittore Furio Cavallini; il poeta Elio Filippo Accrocca; Alexandr Solgenitzin, incontrato in una dacia nascosta in un bosco vicino a Soçi, sul Mar Nero; il poeta Giulio Caprilli; lo scultore Francesco Messina … Di nuovo il viaggio, l’incontro, l’abbandono al vino, alla danza e alla donna!
Di mare un cammino è il titolo di un tuo libro del 2002, scaturito dalle tue esperienze di viaggio: vuoi parlarcene?
Ho appena parlato di un itinerario interno, mentre in questo libro il percorso è nel Mediterraneo dove uno si vede con i suoi luoghi, la sua gastronomia, i suoi balli, i prodotti della sua cultura e i tanti personaggi di rilievo. In qualche modo vi è un doppio cammino, su mare e terra, ma anche nella stanza interna, spazio tra costole e carne per il viavai alla ricerca del Sé: nel proprio labirinto dove alla fine splende la luce della Casa lasciata: l’essere umano si sente spesso come un esiliato. Al ritorno avrà quiete la nostalgia che domina il pellegrinaggio? Saremo arricchiti, di più non si può dire. Tra cibi, costumi e linguaggi variegati, vi è l’incontro con personaggi che hanno tessuto la tela culturale e politica del secolo XX: per l’Italia appaiono Pier Paolo Pasolini, Mino Pecorelli, Giulio Andreotti, Flaminio Piccoli. Memorabili gli incontri con il patriarca di Venezia Angelo Roncalli poi Giovanni XXIII, o quelli con il musicista Mikis Teodorakis o quelli con i poeti Vincenzo Cardarelli, Diego Valeri, Umberto Saba. Vi è quindi occasione di vera poesia.
Quali sono i tuoi rapporti col mondo classico, del quale hai spesso visitato i luoghi consacrati, come la Grecia? E come giudichi un poeta greco moderno qual è Kavafis?
La Grecia classica per me sono sì le acropoli e i siti archeologici, sì i musei e le colonne qua e là sparse, ma soprattutto sono i poemi di Omero e gli epigrammi dell’Antologia Palatina. Mi leggo ogni giorno, nell’originale, l’Iliade, a mio giudizio l’opera di poesia più alta. E vi sono le tragedie di Sofocle e di Eschilo: e vi sono i pensieri dei presocratici.
Kavafis! Un poeta che amo tanto da tenere a memoria alcune sue poesie; un poeta conosciuto da Ungaretti e tanto amato dalla Yourcenar! Da leggere in greco, giacché perde tantissimo nella traduzione. Scrivere poesia è scrivere musica, e le note musicali non si traducono. Kavafis era la continuazione del legame fra i Greci del periodo tolemaico, la cultura di Bisanzio e quella della classica Atene. Visse ad Alexandria, crocicchio vivace e ricco di suggestioni e situazioni socio-politiche particolari. Sostò a lungo nelle caffetterie, come succede a tutti in Medio Oriente, ma dentro di sé faceva strani percorsi di vita nel passato storico, trattandoli con ironia e lanciando, quando scriveva, messaggi oggi ancor calzanti e vitali. I suoi poemi, quelli che lui volle pubblicati, sono gioielli di perfezione. Non le poesie erotiche, ch’egli teneva nel cassetto e non volle pubblicare, giacché non limate dal suo rigore. Ma qualche studioso le ha volute diffondere a favore di certi pruriti e nell’interesse di qualche editore: Kavafis aveva anche pudore e amore della dignità.
Cosa vuoi dirci di quel pregevole volume, Italia Rotonda, che illustra un Tavolo intarsiato da Lampridio Giovanardi, e racconta la storia d’Italia dal 1260 al 1875? E sull’ormai imminente Il Palazzo di Cristallo cosa vuoi dirci?
Ho scoperto per caso l’esistenza di questo gioiello d’artigianato e d’arte nella casa del mio amico imprenditore e collezionista Attilio Montorsi. Girando il mondo, ho visitato tanti musei e collezioni private, ma non avevo mai visto un intarsio tanto straordinario. D’acchito ho avvertito che si trattava di un’opera non considerata nel suo giusto valore, neppure dai precedenti proprietari. Ho subito deciso di dedicarmi alla lettura del difficile racconto visivo: ne valeva la pena, anche in visione delle prossime celebrazioni per i 150 anni d’indipendenza e unità d’Italia. La storia è da sempre stata la mia passione, e ho amato soprattutto Tucidide nel suo greco difficile ma lucido, Tacito nel suo latino tagliente ed essenziale: tutti e due figli della poesia come alcuni autori della tragedia classica. In più di due anni sono riuscito a illustrare 3.135 anni di storia con brevi e chiari cenni, ho individuato 4.000 personaggi, dando voce a quel mandala patriottico che ci rende contemporanei dei grandi e minori personaggi storici e ci obbliga a tramandarne l’eredità. Anche perché è auspicabile che questa narrazione luminosa e feconda aiuti a rintracciare quelle virtù italiche oggi dai più neglette. Con 40.000 pezzetti di legni, metalli, madreperla, guscio di tartaruga, e tanti altri materiali, ora in stile certosino ora in quello pittorico, Giovanardi ha tessuto la narrazione di un percorso di pensiero, di sacrificio e d’invenzione che ha reso l’Italia preziosa fonte di arte e scienza per l’Umanità.
Lo stesso Montorsi ha ora nella sua raccolta un altro Tavolo dello stesso autore, sempre rotondo e ancora con un diametro di 108 cm. (vedi questo importante numero in relazione con la precessione degli equinozi) che illustra e racconta la Grande Esposizione a Londra nel 1851. Un evento epocale: la prima esposizione globale, il primo edificio in vetro e ferro che dette il via all’architettura moderna, la celebrazione della rivoluzione industriale, con produzione di macchine appena inventate, con nuovissime tecnologie, nuovi materiali e nuovi tessuti… e opere d’arte e di scrittura. Il Palazzo di Cristallo, opera del giardiniere Joseph Paxton, è la testimonianza dell’epoca vittoriana, con i suoi costumi e la sua cultura. Il volume, nella stessa forma di Italia Rotonda uscirà tra pochi mesi.
Le sette voci di Elena è il titolo di un tuo dramma del 2010, rappresentato con successo sull’Acropoli di Elea nel luglio dello stesso anno; cosa ha significato per te questa rivisitazione del mito.
Nel dramma, Elena, uscita da una delle Porte Scee, si accosta al cavallo e, supponendo che dentro vi siano gli eroi più noti, alcuni regnanti, gira attorno e imita le voci delle loro madri o mogli, voci che le sono rimaste nella memoria, ascoltate nei suoi incontri nelle visite di Stato: uno di loro potrebbe essere colpito dalla presenza della madre o moglie, e reagire con una esclamazione o con un urlo. È ancora l’idea della Voce e della Parola come attrici sulla scena. Questo pezzo di teatro, che allude agli attentati dei kamikaze di oggi e richiama un atto di terrorismo, sta avendo successo, ed è stato rappresentato di recente anche a Torino, sempre con l’interpretazione dell’attrice Paola Tortora.
Tu sei nato a Marciana Marina nell’isola d’Elba: pensi che il luogo della tua nascita abbia in qualche modo segnato il tuo destino di “poeta giramondo” come sovente vieni chiamato?
Certamente! Quella mia culla di voci marine mi riportavano sì alle profondità, ma anche agli ampi spazi, ad un altrove, alla diversità che prevedevo di luoghi e di orizzonti: da qui il mio interesse e studio da subito, ancora bambino, delle lingue: il latino da Don Nicola, parroco; l’inglese da una cugina di Queen Mary, Liliana Quaranta di San Severino, in esilio all’Elba per aver sposato il Barone di San Severino, amico e biografo, se ben ricordo, di Mussolini; il francese dalla Massabò Fagioli, la cui grammatica della stessa lingua era libro di testo nelle scuole italiane; il tedesco dalla Signora Tancredi, olandese, moglie di un campione di scherma. E già queste persone, riparate all’Elba in tempo di guerra, mi proiettavano in Paesi lontani dandomi il forte slancio per girare il mondo. In tempi lontani primo a darmi il titolo di poeta giramondo fu il critico letterario Riccardo Marchi, di Livorno.
Quali sono le tue più recenti realizzazioni e quali progetti hai per il futuro?
Ho appena terminato Il Commento al Vangelo di Tommaso, ormai pronto per l’invio ad un editore. In esso appare il mio colloquio epistolare con un mio discepolo, Paolo Bianchi, il quale mi pone domande cui seguono le mie risposte. Mi accingo a “varare” la mia raccolta poetica Le Mosche di Omero. Così ho tre libri in uscita, assieme a Il Palazzo di Cristallo. Spero presto di vedere in teatro Jeanne e Dedò. Andrò a maggio a Cracovia per vedere a che punto è il lavoro. Prossimamente mi dedicherò alla definitiva stesura de I trentatré nomi di Dio. Il futuro? Finché potrò cercherò di gridare fin che posso e indicare che la vera poesia è quella che include ciò che non si vede né si tocca, figlia del mistero, dell’invisibile che abita nel visibile, e che per scrivere poesia e riportare fedelmente il dettato interiore, occorre, ripeto, essere bravi artigiani della parola e cantori di musica.
Liliana Porro Andriuoli


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